La sceneggiatrice Ilaria Maccchia, al suo esordio in libreria con “Ho visto un uomo a pezzi”, si racconta con ilLibraio.it, e parla del rapporto tra cinema e letteratura

Ilaria Macchia, sceneggiatrice del recente Non è un paese per giovani diretto da Giovanni Veronesi, esordisce in libreria con Ho visto un uomo a pezzi (Mondadori), composto da sette storie che raccontano altrettanti momenti della vita di Irene. Figlia, amante, mamma, compagna, sorella, ma soprattutto donna che percorre la sua esistenza un episodio dopo l’altro.

Ilaria Macchia

Irene vive tra Lecce, sua città d’origine, e Bologna, si definisce “quella che se ne va per poi ritornare” e in ogni episodio si mette a nudo, scopre le sue ferite e le racconta senza pudore. Perché Ilaria Macchia con la sua scrittura fa vedere tutto, o quasi, come in un film, o in una serie tv.

Da sceneggiatrice, come spiega la tendenza che vede molti scrittori dedicarsi alle sceneggiature di film e serie tv e altrettanti sceneggiatori pubblicare romanzi e racconti?
“Non penso ci sia una grande differenza tra le due attività, in entrambi i casi si tratta di scrittura. Se penso alla mia formazione, le due cose sono cresciute insieme. Alla fine uno scrittore ha a che fare con le parole, ci gioca, poi sceglie il mezzo con cui esprimerle e di conseguenza si adatta alle sue regole. In generale trovo questa tendenza molto positiva”.

Quali sono allora le regole che differenziano il testo scritto per lo schermo e quello invece ideato per il libro?
“Per il cinema vale la regola del rendere tutto visibile e del raccontare i sentimenti mostrandoli. Sostengo le belle sceneggiature: quelle sì tecniche, ma che mantengono il gusto della parola e che sono capaci di creare l’atmosfera. Infine, credo sia importante che ognuno scriva a suo modo, secondo il proprio stile personale”.

Come spiega l’aumento dei film tratti da libri?
“Trarre un film da un libro significa lavorare su una storia che è già stata scritta e questo rappresenta una sicurezza in più: conoscerne lo sviluppo e il finale permette di capire più facilmente cosa può nascere. Anche per la produzione vuol dire non doversi affidare completamente a un lavoro di cui si sa poco”.

Non si corre, allora, il rischio che gli scrittori realizzino opere sempre più simili a sceneggiature, sapendo che il cinema è interessato agli adattamenti dei romanzi?
“Non credo ci sia questo rischio: si tratta di due momenti diversi. Antonella Lattanzi, ad esempio, ha scritto un romanzo (Una storia nera, ndr) che diventerà un film, ma questo lei lo ha saputo a libro ultimato. Da sempre esistono i film tratti dai libri, ma gli scrittori scrivono e basta. Si tratta, almeno per me, di un lavoro istintivo: non si può scrivere per altro motivo che lo scrivere stesso”.

In qualche modo i libri che leggiamo sono influenzati dalla tv e dal cinema?
“Le serie tv, in particolare, credo abbiano riportato attenzione alla narrazione seriale che, per anni, è stata dimenticata. L’uso della serialità forse ha influito anche sulla riscoperta dei racconti: alla base c’è l’idea di leggere (ma anche vedere) una storia non continuativa caratterizzata dalla brevità”.

Ho visto un uomo a pezzi diventerà un film?
“Mi piacerebbe, certamente, ma prima che uscisse il libro non ci avevo mai pensato. La struttura è difficile, ho raccontato una serie di episodi diversi, e non so se sia possibile adattarli per il cinema”.

Parlando della struttura della sua opera, perché ha deciso di studiare la protagonista, Irene, in diversi periodi della sua vita?
“Quando ho scritto i primi racconti non sapevo ancora che si trattasse dello stesso personaggio, poi andando avanti ho capito che era sempre Irene. Mi interessava raccontare dei momenti della vita, questa era l’unica regola fissata fin dall’inizio. Infatti il libro è composto da episodi autoconclusivi e lontani tra loro nello spazio e nel tempo”.

A suo avviso, qual è il film più riuscito tratto da un libro?
La solitudine dei numeri primi, anche se credo che qualcuno non sarà della mia stessa idea. Nel film gli attori facevano trasparire la solitudine dei personaggi ancora di più che nel libro e mi hanno permesso di capire meglio anche il romanzo stesso. Anche le trasposizioni di Harry Potter sono molto riuscite”.

Invece, l’adattamento meno riuscito?
“Ci devo pensare un attimo… Forse le varie trasposizioni di Cime tempestose: non ho mai capito il senso di trasformare un romanzo così in un film. Penso alle versioni più recenti in particolare, molto patinate, che collidono con l’idea che avevo io della storia, legata alla carnalità e alla violenza”.

 

 

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