“Ci portiamo dietro da generazioni una costante paura di sbagliare, di poter deludere gli altri”. Dopo il successo di “Non voglio più piacere a tutti”, Maria Beatrice Alonzi approda per la prima volta alla narrativa con “Noi, parola di tre lettere”, un romanzo sulla “generazione senza futuro”. Per l’occasione, ilLibraio.it ha intervistato l’autrice – molto seguita sui social, dove è da anni punto di riferimento sul tema dell’accettazione di sé e del raggiungimento degli obiettivi personali e professionali: “Siamo cresciuti con l’idea di dover avere successo sempre e a tutti i costi. Viviamo nella convinzione che se sbagliamo il capo ci licenzierà, se non ci laureiamo non valiamo niente, se non ci comportiamo bene non verremo amati, e così via. Ma se le persone stanno male è necessario affrontare questo dolore, non si può ignorare”

Sono in tre: Teresa, Margherita e Carlo. Ma insieme fanno una cosa sola. A vederli da fuori sembrerebbero ragazzi come tanti: provenienti da famiglie per bene, splendenti, ricchi, tanto desiderabili quanto privi di desideri.

È nel loro vuoto, nella loro noia, nel loro amore che non sa come esprimersi, che galleggiano le idee più oscure, le paure più impronunciabili, i pensieri più scellerati, che prendono la forma di progetti pericolosi, al di fuori della loro portata.

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Dopo aver autopubblicato Il libricino della felicità e raggiunto il successo con il best seller Non voglio più piacere a tutti (Vallardi), Maria Beatrice Alonzi approda per la prima volta alla narrativa con Noi, parola di tre lettere (Salani). Un romanzo in cui l’autrice – molto seguita sui social, dove è da anni punto di riferimento sul tema dell’accettazione di sé e del raggiungimento degli obiettivi personali e professionali – racconta ‘la generazione senza futuro‘, una generazione che si sente derubata di ogni possibilità, schiacciata da responsabilità e colpe che non gli appartengono, e pronta a tutto per riscattarsi.

ilLibraio.it l’ha intervistata.

Dopo due libri self-help, la scelta di dedicarsi a una forma completamente nuova, quella del romanzo. Perché?
“La scrittura fa parte della mia vita, da sempre. È un modo per esprimermi personalmente, ma fa anche parte del mio lavoro. Sinceramente non ho avvertito un vero e proprio passaggio dalla non fiction alla fiction. L’unica cosa che sapevo, era che volevo comunicare in un modo diverso per un pubblico diverso: quello dei più giovani”.

Che sono infatti i protagonisti di questa storia. 
“Sì, ma questa non è una storia sui ventenni di oggi, bensì sui ventenni. È un’età che mi interessava raccontare, perché è un periodo di passaggio significativo, quello in cui si inizia a fare le prime scelte decisive e, di conseguenza, si inizia anche a commettere i primi errori. È l’età in cui si smette di essere una promessa e si comincia a diventare una sconfitta”.

È un bel peso da portare.
“Infatti è proprio questo peso il centro del romanzo. Un peso che ci portiamo dietro da generazioni. La costante paura che abbiamo di poter sbagliare, di poter deludere gli altri”.

E di non essere perfetti. L’aspirazione alla perfezione è in effetti uno dei temi più discussi di questo periodo.
“Siamo cresciuti con l’idea di dover avere successo sempre e a tutti i costi. Viviamo nella convinzione che se sbagliamo il capo ci licenzierà, se non ci laureiamo non valiamo niente, se non ci comportiamo bene non verremo amati, e così via”.

Con i social questa sensazione si è amplificata?
“Certamente i social ci sottopongono costantemente a immagini di successo, ma non credo che sia cambiato molto rispetto al periodo in cui vedevamo le foto delle figure dello spettacolo sui giornali o in televisione. Solo che allora forse apparivano meno vicine, meno possibili”.

Quindi è un qualcosa che ci è sempre appartenuto?
“Sì, è un trauma che ci trasciniamo avanti da un bel po’. Un trauma che si rinnova e che continua ad alimentarsi dalla convinzione che ‘una volta si cresceva benissimo’. Purtroppo sembra esserci una completa incapacità di aiutare i più piccoli e i più giovani a sviluppare un’educazione sentimentale ed emozionale”.

E come si può fare per superare questo trauma?
“Lo dico sempre: bisogna andare in terapia. Oggi c’è una consapevolezza diversa e si può interrompere questo ciclo tossico iniziando un percorso terapeutico, mettendosi in gioco a livello psicologico”.

Ci vuole coraggio anche per questo.
“Se le persone stanno male è necessario affrontare questo dolore, non si può ignorare. Non si può sottovalutare un malessere psicologico soltanto perché non si vede. Faccio sempre un esempio: se mi rompo un ginocchio, nessuno potrà mai metterlo in dubbio. Nessuno mi dirà mai ‘ma vedrai che non è niente, vedrai che è solo stress’. Se mi rompo in ginocchio, vengo portata in pronto soccorso. Mentre se dico che ho una sofferenza a livello psicologico, corro il rischio di non essere presa sul serio, di essere liquidata”.

Dal romanzo emerge anche un forte senso di individualismo e solitudine.
“I personaggi di questa storia sono in perenne lotta con loro stessi, ma non riescono ad esprimerlo. Sembrano tutti immobili e soli, ma il tema non è solo la solitudine, bensì l’impossibilità di partecipare a una comunità. Il punto non è essere soli, ma non riuscire a relazionarsi con gli altri perché ci si sente soli. Sulla differenza tra essere soli e sentirsi soli, tra l’altro, ho dedicato anche molto spazio in Non voglio più piacere a tutti“.

Un sentimento che probabilmente chiunque sentirà familiare.
“Da una parte mi auguro che le persone non si ritrovino in questo libro, perché questo vorrebbe dire che sono riuscite a interrompere il trauma generazionale. Non avevo l’urgenza di raccontare la storia di chi sta bene”.

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A proposito di persone e di urgenza del racconto. Lei è molto seguita sui social e con la sua community è riuscita instaurare un rapporto di scambio e di fiducia. Questa storia nasce da un evento personale o da qualche racconto che ha sentito?
“In realtà no, la trama è stata totalmente inventata. Ho avuto l’illuminazione un giorno, mentre stavo guidando. Ho sentito il desiderio di voler indagare un rapporto d’amore a tre. Spesso dico che la relazione a due è l’unica a essere possibile, perché è la sola che ti permette di guardare e di essere guardato contemporaneamente. Ma anche in una relazione a tre si instaura qualcosa di simile, perché mentre i tuoi occhi incontrano quelli dell’altro, c’è un’altra persona accanto che ti sta guardando. Ed è questo sguardo, questa situazione triangolare, che volevo raccontare”.

Si rintracciano infatti molti temi che affronta tutti i giorni sui suoi profili, ma trasposti in chiave romanzesca.
“Sono a contatto tutti i giorni con storie agghiaccianti. Le persone con me si sfogano, mi raccontano ciò che sentono. Di fronte a queste confessioni mi sento impotente, perché so di non poter essere d’aiuto a tutti. Inoltre – cosa che ribadisco spesso – non sono una psicologa e sui social non si può creare un setting terapeutico. L’unica cosa che posso fare è ringraziare, e dire che ci sono. Ma di fatto è questo il motore che mi porta a scrivere i libri. Poter fare la differenza, far sentire le persone meno sole”.

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