È successo che, a un certo punto, abbiamo cominciato a parlare del lavoro come se stessimo parlando di amore. Abbiamo iniziato a pensare che dal lavoro dipendesse tutto, la realizzazione, il valore personale, l’appagamento. In sintesi: la nostra felicità . Il fenomeno è stato indagato da diversi punti di vista, soprattutto con la pandemia, soffermandosi in particolare sui Millennials: la generazione della sindrome dell’impostore, dell’insicurezza cronica, del burnout, del workaholism, del “grazie a dio è lunedì” e della terapia. Ma è davvero giusto continuare ad alimentare questo sistema?
Incontrerai il lavoro dei tuoi sogni. Quando è quello giusto, lo riconoscerai fin dal primo momento. Scegli il lavoro che ti piace e non dovrai lavorare nemmeno un giorno della tua vita.
È successo che, a un certo punto, abbiamo cominciato a parlare del lavoro come se stessimo parlando di amore. Abbiamo iniziato a pensare che dal lavoro dipendesse tutto, la realizzazione, il valore personale, l’appagamento. In sintesi: la nostra felicità .
Le priorità sono cambiate, l’importanza che prima era attribuita soprattutto alla sfera privata e familiare si è trasferita a quella professionale, creando aspettative pressanti, obiettivi a volte irrealizzabili, asticelle che si spostano sempre più in là . Trascorriamo la maggior parte della nostra vita a lavorare, non solo perché dobbiamo, ma spesso anche perché lo vogliamo (o, almeno, perché crediamo di volerlo). A risentirne, prima di tutto, sono gli affetti, le relazioni e il tempo libero.
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Il fenomeno è stato indagato da diversi punti di vista (tra gli altri, il magazine Siamomine ha dedicato all’argomento diverse riflessioni), soprattutto dopo la pandemia (che ha stravolto le abitudini, specialmente per quanto riguarda i rapporti sociali), soffermandosi sulla tendenza di molti della generazione Millennial a totalizzare la propria esistenza al lavoro.
Al di là del precariato e dei salari bassi (motivi principali di questa forma di esaurimento), c’è una sorta di convinzione sotterranea, una specie di ossessione: è come dovessero a tutti i costi fingere di amarlo, nota il New York Times.
Tutti ne devono essere felici, anzi felicissimi. Orgogliosi, anzi orgogliosissimi. Sui social si postano storie di documenti Word sfocati con didascalie entusiaste: “Amo il mio lavoro” (impossibile non pensare a Emily de Il diavolo veste Prada mentre ripete questa frase fissando il monitor del suo computer con gli occhi iniettati di sangue).
La retorica sfocia nella vera e propria mitologia quando ci si descrive come eroi ed eroine, provati per le troppe mansioni e affaticati dalle ore che verranno, ma comunque felici, soddisfatti, appagati: “Io amo il mio lavoro“.
Autocelebrazioni, incensamenti, lodi e ostentazioni: a ogni complimento che riceviamo equivale uno screenshot, un aggiornamento su LinkedIn, un post per dichiarare la propria fierezza nei confronti di un’attività tutto sommato normale, o quantomeno quotidiana, infarcita però da lustrini e fiocchetti. Se lavori come chef, il piatto che hai preparato è sempre delizioso e sublime; se ti occupi di social e digital marketing, il progetto che hai appena preso in carico è sempre stimolante e animato da persone splendide; se scrivi per giornali o simili, la tua inchiesta riguarda sempre un argomento super interessante, la tua recensione un film imperdibile o un evento al quale è impossibile mancare.
Lo spazio riservato al fallimento è ben poco.
La noia praticamente non esiste. Sembrano non esistere nemmeno l’insoddisfazione, la frustrazione o una qualsiasi forma di scontentezza. O, meglio, se ci sono si limitano a essere un simpatico eye-rolling – naturalmente abbellito da un filtro che addolcisce lo sguardo.
Come si può immaginare, il fatto riguarda principalmente i lavori cosiddetti creativi, quelli che le persone hanno scelto per passione, perché pensavano di seguire un sogno in nome del quale erano disposte ben volentieri a sacrificare notti insonni e fine settimana liberi o, peggio, a non essere retribuite per un po’ di visibilità , per non perdere un’occasione importante. Ma il culto dello stacanovismo non fa sconti o esclusioni, è un trend che può sedurre i lavoratori dei più svariati ambiti: basti pensare che sotto l’hasthag #Ilovemyjob su Instagram appaiono 15,8 milioni di post, tra foto di collane realizzate artigianalmente, unghie laccate con decori floreali, bisturi perfettamente allineati, aerei sulla pista di atterraggio e computer aperti su allegre presentazioni PowerPoint.
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Chiaramente, tutti o quasi, sotto sotto sono consapevoli che la realtà è ben diversa, che anche un lavoro dei sogni sa rivelarsi, se non un incubo, comunque una banale mansione, un impiego volto alla sussistenza economica, con tutti i suoi pro e i suoi contro: ma essere sottoposti a un costante bombardamento positivo non lascia scampo, e di fronte a una cascata di contenuti esaltati e scintillanti è impossibile non subire qualche contraccolpo – soprattutto nei giorni no.
Il meccanismo, infatti, è contagioso e dilagante. Anche guardando con occhio critico questo tipo di comunicazione è difficile non caderci. Specialmente per la convinzione – spesso sostenuta dall’azienda stessa – che bisogna “fare personal branding“: bisogna farsi notare, far conoscere quello che si fa, mostrarsi, mettersi una coccarda sul petto e poi posizionarsi sotto una serie di frecce luminose e dire “Ci sono anche io, sono qui, guarda quanto sono in gamba“.
Le innovazioni tecnologiche hanno infatti amplificato queste dinamiche, rivelandosi l’alleato perfetto per un mondo capitalista e competitivo, un portale per rimanere sempre connessi, sempre sul pezzo, sempre reperibili ed efficienti.
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Sembra l’epoca del narcisismo, dell’individualismo, dell’egoismo, dell’ipernarrazione. E invece, per molti e molte, è l’epoca della sindrome dell’impostore, dell’insicurezza cronica, del burnout, del workaholism performativo, del motto citato dal Guardian “grazie a dio è lunedì“. Forse è anche per questo che, sempre il New York Times, ci definisce “la generazione della terapia“.
Il lavoro ha smesso di essere una semplice occupazione e si è trasformato nel metro per giudicare noi stessi, generando un’equivalenza che ha provocato più di un danno.
Da un lato, come mette bene in luce Jennifer Guerra nel saggio Il capitale amoroso, è diventata una leva per portare le persone a produrre di più, una trappola che si traveste sotto il nome di meritocrazia e che costringe gli individui a sentirsi costantemente in dovere di performare al meglio. Dall’altro è una tendenza che ci fa sovrastimare il lavoro, attribuendogli valori e significati che non gli appartengono. Sembra di sentire Bo Burnham, quando in Inside, spettacolo di stand-up comedy disponibile su Netflix, prende in giro l’atteggiamento delle aziende che si riferiscono alla loro produzione bagle come se stessero parlando di una missione per salvare il mondo.
Il discorso incorre poi in una deriva ancora più insidiosa quando si parla di donne: per loro sembra che l’affermazione lavorativa sia ancora più determinante nei termini della realizzazione personale. Il mito della self-made woman, quella che ce l’ha fatta, quella che ha saputo non rinunciare a nulla – la “girlboss” – è ancora più intriso di capitalismo perché rischia di far coincidere il successo con l’emancipazione, l’indipendenza, e quindi, di nuovo, con la definizione d’identità .
Il cerchio non può non finire in una spirale di sensi di colpa, aumentata dal popolare refrain del “chi vuole ce la fa“, perché naturalmente non sempre si ottiene il posto sperato, non sempre si guadagna una posizione di rilievo, non sempre quello che desideravamo si realizza.
Soprattutto: non sempre, al di là di tutti i sacrifici, si hanno le condizioni necessarie perché questo possa accadere. Ci attacchiamo alle eccezioni e ci dimentichiamo la regola; ci dimentichiamo, soprattutto, che avere una regola – un modello – differente, in tanti casi darebbe un nuovo senso a quello che crediamo essere il traguardo: una meta irraggiungibile che, in un sistema volto alla rincorsa perenne, non si rivela mai un punto d’arrivo.
L’AUTRICE – Jolanda Di Virgilio lavora nella redazione de ilLibraio.it. È co-autrice, con Sara Canfailla, del romanzo d’esordio Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti, in libreria il 26 agosto). Nel libro, in cui chat, mail e social entrano nella narrazione (del resto, la trama vede al centro la storia dello stage della protagonista, Ida, ed è ambientata in un’agenzia di comunicazione milanese), si racconta cosa significa diventare adulti oggi: le relazioni finite prima di cominciare, il senso di impotenza di fronte a un sistema lavorativo precario e ingiusto, la frustrazione di vivere in una città difficile, dove dicono che ci sia posto per tutti dimenticandosi di dire che, in quel posto, ci si sente molto soli.
L’APPUNTAMENTO CON LIBLIVE SULLA PAGINA FACEBOOK DE ILLIBRAIO.IT – Il 6 settembre, alle ore 18, Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio presentano il loro romanzo Non è questo che sognavo da bambina con Teresa Ciabatti e Ilaria Gaspari