Nel loro romanzo d’esordio, “Non è questo che sognavo da bambina” (di cui ilLibraio.it pubblica un estratto), Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio raccontano cosa significa diventare adulti oggi per molte e molti giovani, in un contesto lavorativo spesso precario e ingiusto. Un libro generazionale anti-consolatorio, a tratti ironico e in altri crudo, in cui si narra la storia dello stage di Ida, la protagonista, e si parla di un momento di passaggio obbligatorio e doloroso, in cui i punti di riferimento sembrano crollare e bisogna costruirne di nuovi. Tra fallimenti, frustazione, dinamiche di potere all’insegna dell’ambiguità e sogni nel cassetto…

Arriva in libreria il 26 agosto per Garzanti Non è questo che sognavo da bambina, un romanzo d’esordio capace di raccontare con autenticità una generazione e, in particolare, cosa, per molte e molti giovani, significa diventare adulti oggi, in un contesto lavorativo spesso precario e ingiusto.

Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio, le due autrici al loro debutto narrativo, attraverso la storia dello stage della protagonista Ida (un personaggio con cui è difficile non empatizzare), narrano, a tratti in chiave tragicomica, un momento di passaggio obbligatorio e doloroso, in cui i punti di riferimento sembrano crollare e bisogna costruirne di nuovi.

Tra fallimenti, senso di impotenza, paure, dinamiche di potere all’insegna dell’ambiguità. Tra relazioni finite prima di cominciare e la frustrazione di vivere in una città difficile (Milano), dove dicono che ci sia posto per tutti dimenticandosi di dire che, in quel posto, ci si sente anche molto soli. E intanto l’unica cosa che rimane è un sogno. Che, anche quando resta chiuso in un cassetto, continua a parlarci e a farci sentire vivi.

non è questo LibLive

L’APPUNTAMENTO CON LIBLIVE SULLA PAGINA FACEBOOK DE ILLIBRAIO.ITIl 6 settembre, alle ore 18, Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio presentano il loro romanzo Non è questo che sognavo da bambina con Teresa Ciabatti e Ilaria Gaspari

Non è questo che sognavo da bambina è un libro attuale e anti-consolatorio, in cui si alternano momenti più leggeri e altri più crudi. Un romanzo poco italiano, da questo punto di vista (e non solo), e infatti le opere in qualche modo affini (per temi, lingua, stile), che possono venire in mente leggendolo (non solo altri romanzi di questi anni, ma anche serie tv e film) sono principalmente internazionali.

Le autrici si sono conosciute frequentando la Scuola Holden di Torino. Ora Canfailla si occupa di social e comunicazione, e collabora anche con il nostro sito. Di Virgilio è redattrice de ilLibraio.it. Nel loro romanzo, tra l’altro, mail, chat e social entrano all’interno della narrazione in modo naturale e non forzato (l’estratto che pubblichiamo in fondo è una delle mail che la protagonista scrive all’amica, Gio).

E veniamo alla trama di Non è questo che sognavo da bambina e, soprattutto, al personaggio principale di questa storia (e di cui la scrittrice Alice Basso ha detto: “Armata del suo sogno e della sua ironia, Ida ha davanti un mondo che vuole cambiarla. Una protagonista fantastica in cui è impossibile non riconoscersi”): neolaureata, coinquilina, fuorisede, precaria. Se dovesse descriversi, Ida lo farebbe così. E da oggi aggiungerebbe alla lista: stagista in una grande-e-importante-agenzia-di-comunicazione.

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Non è quello che sognava da bambina ma, dopotutto, non è la prima volta che le cose non vanno nella direzione sperata: avrebbe voluto vivere ovunque tranne che a Milano, e invece ci vive. Voleva una relazione stabile, ed è stata lasciata. Ha studiato per diventare sceneggiatrice, e invece fa la social media manager. Ogni mattina si trascina in ufficio e, tra meeting, brainstorming e tante altre parole che finiscono in -ing, ci resta fino a sera, impegnata in un lavoro che non riesce a capire che lavoro sia, circondata da colleghi che sono simpatici e brillanti, sì, ma solo tra di loro.

Fino al giorno in cui, stanca di una vita che troppo spesso si riduce a essere un pendolo che oscilla tra un file Excel e la prossima sbronza, Ida capisce che, per sopravvivere, deve adattarsi, assomigliare di più a loro – i suoi colleghi, il suo capo – e meno a sé stessa. E mentre le ambizioni cambiano e il confine tra giusto e sbagliato si fa inconsistente, rincorrere i suoi sogni diventa un capriccio che non può più concedersi.

È ora di crescere: ridimensionare le aspettative e accettare i compromessi. Così, quando alla protagonista arriva la notizia di un concorso a cui candidare il suo cortometraggio, Ida non sa che fare. Quasi non ricorda più chi volesse diventare da bambina. Ma non si può mai mentire del tutto a sé stessi. Almeno, non a quello che c’è in fondo alla propria anima…

Non è questo che sognavo da bambina

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto (una delle mail che la protagonista, Ida, invia all’amica, Gio):

Da: ida.attanasio@gmail.com
A: gio.chiesa@gmail.com
Oggetto: Lavorare fa schifo

 

Ciao gio.

Sarò carina per l’ultima volta: smettila di scrivermi su Telegram. O su Whatsapp. O Su Facebook. O su qualsiasi altro veicolo di distrazione sociale.

Se tocco il cellulare, vuol dire che non sto lavorando. E lavorare è tutto ciò che deve sembrare che io stia facendo.

Per cui eccomi qua, a digitare furiosamente con espressione impenetrabile. Chiunque penserebbe che io stia scrivendo il comunicato stampa più bello della storia. Invece scrivo a te, perché un comunicato stampa non so neanche che cosa sia e in questo momento l’ultima cosa che voglio è chiederlo a Salvatore Aranzulla.

Ti ricordi quando dicevo che non ne potevo più di studiare e che volevo solo trovarmi un lavoro?

Possiamo aggiungerla alla lista di stronzate che dico e poi passano due mesi e mi compatisco da sola per averci creduto anche solo per un secondo. Tipo come quando Dario mi ha scritto “mi manchi” e io ho creduto che fosse cambiato e poi no, era ancora uno stronzo.

Ma torniamo a noi.

Lavorare fa schifo. Ne avevo già avuto il sentore quando servivo duecentosei caffè al giorno al bar del JamboShoppingCenter, ma posso dire? Non ha niente a che vedere con il senso di nausea che provo quando guardo un foglio excel.

E non me lo spiego, perché il valore percepito di ciò che faccio è altissimo. Perché se mi capita di dire a qualcuno (e mi capita molto spesso, visto che a Milano ‘di che ti occupi’ è sempre trending topic) “faccio la content strategist copywriter social community manager, non so se hai presente”, quel qualcuno non solo “ma certo che ho presente”, ma anche “wow, fantastico, che bello”. Quando in realtà non sa neanche che cosa ho detto. E come potrebbe, quando non lo so neanche io?

Diciamocelo, quando rivelavo che facevo la barista part-time, nessuno mi è mai sembrato particolarmente impressionato. Forse se gli avessi detto che facevo la “coffee specialist first impression maker” avrebbero reagito in modo diverso, chissà.

La verità è che sono due settimane che faccio questo lavoro e non so che lavoro sia. In mia difesa posso dire che qui dentro non lo sa nessuno, ma fingono tutti benissimo.

Dicono frasi come “il contenuto ha performato molto bene”, oppure “dobbiamo ottimizzare l’effort editoriale” o anche “questa idea è davvero disruptive” e tu non capisci niente, ma annuisci lo stesso. Anzi, più non stai capendo un cazzo più annuisci vigorosamente.

Soprattutto non capisci la necessità di cambiare lingua o, come direbbero loro, di switchare il tone of voice. Ok gli inglesismi ma forse così è un po’ too much, no?

Prendi ad esempio questo dialogo con la mia nuova collega, Lucrezia. Lei viene da Pescara ma vive a Milano da dieci anni.

“MilanoMilano?”, io.

“Sì, sto sulla rossa”, lei.

“Ah, quindi vivi proprio nel vagone della metro?”, avrei voluto dire, ma non è quello che ho detto. Mi sono allineata alla consuetudine tutta milanese di geolocalizzarsi sulle fermate della metro e, di nuovo, ho annuito. Non solo, ho anche risposto:

“Io sulla verde”. In realtà sto a venticinque minuti a piedi da Lambrate, ma dettagli.

Insomma, questa Lucrezia mi guarda e sai che mi dice? che ho lo stesso layout di Jasmine.

1, chi cazzo è Jasmine?

2, che cazzo di commento è? Cosa sono, un collage su PicsArt?

Cosa stai cercando di dirmi, Lucrezia?

Che le somiglio? Allora perché non hai potuto dirmi che le somiglio?

Tra l’altro poi l’ho vista questa Jasmine, e ho capito che non era proprio un complimento.

Ora abbiamo un unico obiettivo: trovare una visual identity (ovvero capire quale ruolo devo ricoprire) all’interno dell’ufficio.

Ti dico quelle che sono già prese aiutandomi con un pratico elenco puntato bullet point:

  • quella che fa battute che non fanno ridere ma chissà perché tutti ridono
  • quello che chiede “caffèèè??” ogni quarto d’ora
  • quello che ci prova con tutte, me inclusa

Ti direi che potrei essere semplicemente “la stagista”, ma anche quella mi sa che è già stata presa. Da Jasmine.

Dimmi se ti viene in mente qualche idea brillante, ora devo proprio andare da Salvatore.

Ti scrivo poi

ida

(continua in libreria…)

Fotografia header: Jolanda Di Virgilio e Sara Canfailla, foto di Francesca Ventriglia

Abbiamo parlato di...