“L’italiano mi dà la possibilità di pensare in un altro modo, mi dà uno sguardo e un distacco che altrimenti non ho. Lo slovacco mi veste stretta”. In occasione dell’uscita del romanzo “Divorzio di velluto”, su ilLibraio.it Jana Karsaiova, all’esordio, racconta del perché ha scelto di scrivere in italiano piuttosto che nella sua lingua madre: “Le parole italiane dentro di me, sono ciò che io sono fuori, in prestito, perennemente in prestito. Ho imparato a convivere in questa mia condizione, ho tradito tutti, qualche volta mia madre me lo rinfaccia”

Sono venuta in Italia nell’anno in cui la Slovacchia aveva vinto i mondiali di hockey sul ghiaccio contro la Russia, una vittoria quasi simbolica, l’intero paese festeggiava. Avevo frequentato il liceo francese e in un primo periodo la lingua mi aveva aiutato ad avvicinarmi all’italiano. Prima di partire mi ero presa un libro che si intitolava L’italiano per autodidatti e un dizionario italiano-slovacco che avevo trovato da un antiquario, datava 1972.

A Verona ho iniziato a lavorare come attrice, nel mio primo spettacolo facevo la parte di un angelo, muto. Camminavo per la scena, mi arrampicavo sui bauli sparsi sul palco, ballavo, ridevo, ma non parlavo. L’unica frase che ho detto era in slovacco. Con me, sul palco, ha esordito anche la mia lingua. Abbiamo viaggiato tanto e io, in ogni posto dove recitavamo, verso la fine dello spettacolo sussurravo all’altro attore la mia unica battuta: “neboj sa, zase bude lepšie”, “non ti preoccupare, andrà meglio”. A volte non sapevo a chi fosse indirizzata, se a lui, al pubblico o a me.

In un altro spettacolo, quando mi sono guadagnata il diritto di parlare, la regista pretendeva una pronuncia perfetta, è stata una sfida, mi esercitavo tutti i giorni. Ho memorizzato il suono delle mie battute, ho capito la differenza tra le vocali aperte e chiuse. Era come se mi fosse mancato fino ad allora una parte dell’udito. L’italiano l’ho imparato così, per via dell’orecchio. Se mi capitava una parola sconosciuta, interrompevo la conversazione e chiedevo di ripeterla. Lo faccio tuttora. A volte sbaglio ancora le doppie oltre alla pronuncia delle vocali. Il mio accento, mi dicono, è da straniera ma non del tutto, qualche volta mi hanno chiesto se ero sarda.

Il primo libro che ho letto in italiano è stato La coscienza di Zeno di Italo Svevo. L’avevo scelto dalla libreria del mio ragazzo perché pensavo parlasse dello zen, della pratica meditativa. Mi era sembrato curioso, il mio ragazzo non era il tipo. Credo che alla prima lettura io avessi capito veramente poco ma mi è venuta voglia di saper leggere in italiano, leggere bene.

Studiavo all’università, recitavo negli spettacoli e leggevo. Mi è capitata tra le mani la Trilogia della città di K. di Agota Kristof e mi sono innamorata di quella scrittura asciutta e crudele, ancora non sapevo che lei scriveva in una lingua non sua, in una lingua nemica come l’aveva definita.

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Quando ho cominciato a scrivere, brevi racconti, avevo trentatré anni.

Nel primo corso di scrittura che ho seguito ero l’unica straniera, aspettavo il mio terzo figlio, avevo la pancia di sei mesi e scrivevo in piedi perché mi faceva male la schiena a stare seduta al banco.

Mi vergognavo a leggere ad alta voce le frasi che scrivevo, sbagliavo la pronuncia anche delle parole che conoscevo. Il docente un giorno mi ha detto: “Pensi di non essere all’altezza, vero? È un buon segno”.

Nel mio tentativo di scrittura ho incontrato di nuovo la Kristof, nel suo racconto autobiografico ho letto queste parole “So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta”. Mi è venuta voglia di emularla anche se ho avuto paura di scrivere in italiano, ce l’ho tuttora, so che sto camminando su un terreno che non conosco, che non è mio e che non lo sarà mai interamente, posso scivolare e ferirmi. Mi vergogno quando sbaglio la sintassi, l’ortografia, quando scambio una parola per l’altra. I miei figli mi correggono, con gusto.

L’italiano mi dà la possibilità di pensare in un altro modo, mi dà uno sguardo e un distacco che altrimenti non ho. Lo slovacco mi veste stretta, in italiano mi sento più libera, ma anche più esposta. Riesco a scrivere del mio paese di nascita, ci torno attraverso i personaggi, la trama, l’ambiente. Ci vado protetta dallo scudo di una lingua, sono accompagnata, non sopraffatta.

Le parole italiane dentro di me, sono ciò che io sono fuori, in prestito, perennemente in prestito. Ho imparato a convivere in questa mia condizione, ho tradito tutti, qualche volta mia madre me lo rinfaccia.

divorzio di velluto

L’AUTRICE – Jana Karšaiová (Bratislava, 1978) ha vissuto a Praga, a Ostia, a Verona dove ha lavorato come attrice. Dopo una lunga assenza, ha ripreso a lavorare in campo teatrale conducendo laboratori e iniziato a frequentare corsi di scrittura. Divorzio di velluto, in libreria per Feltrinelli, è il suo primo romanzo.

Come si sopravvive allo strappo, alla perdita delle radici? Cosa resta, come ci si inventa di nuovo? Karšaiová ha scelto la lingua italiana per scrivere il suo primo romanzo. E raccontare di uno sradicamento e di una rinascita. Quella che narra è una storia di assenze che pesano, di tradimenti, di desideri temuti, di strappi che chiedono nuove risorse per essere ricomposti.

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Katarína, la protagonista, torna da Praga a Bratislava per trascorrere il Natale insieme alla famiglia. Alle vecchie incomprensioni con la madre si aggiunge la difficoltà di giustificare l’assenza del marito Eugen. Ma in quei pochi giorni ritrova anche le vecchie compagne di università, Mirka, Dana e soprattutto Viera, che si è trasferita in Italia grazie a una borsa di studio e torna sempre più malvolentieri in Slovacchia. Le due amiche si riavvicinano, si raccontano l’un l’altra gli strappi, le ferite – Viera con Barbara, di cui è stata la giovane amante, Katarína con Eugen, che l’ha abbandonata un paio di mesi prima con un biglietto sul tavolo della cucina.

Katarína ripercorre il rapporto con lui, dal primo incontro al matrimonio forse troppo precoce, fino al dolore, di cui ancora non riesce a parlare. E tra i ricordi emergono frammenti della vita a Bratislava sotto il governo comunista. Di velluto viene definita la rivoluzione che ha portato alla dissoluzione dello Stato comunista cecoslovacco, e con “divorzio di velluto” si intende la separazione tra Slovacchia e Repubblica Ceca, che nel romanzo riverbera quelle tra Katarína e il marito, tra Viera e un Paese troppo stretto…

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