“Le forze della terra” raccoglie i racconti di Jo Ann Beard, che si incastrano uno nell’altro. L’autrice naviga tra i ricordi, descrivendo legami per lo più femminili. Nelle sue storie, in cui i dettagli sono curati con scrupolo maniacale, c’è un costante sentimento di vuoto. Al centro la difficoltà di crescere e l’inevitabilità delle fratture nel percorso della vita…

“Tra poche ore il mondo riprenderà, ma per adesso siamo in una sacca di silenzio. Siamo nella plasmapausa, un luogo di equilibrio, dove le forze della Terra incontrano le forze del Sole. Lo immagino come un luogo di quiete, dove le particelle di polvere smettono di vorticare e si librano im­mobili nello spazio profondo.”

È una magia, il ricordo: ci fa volare nel tempo, crea connessioni tra universi lontani tra loro, tra persone diverse, rivela scorci di vita che innescano un riconoscimento reciproco, squarcia veli su storie delicate, e anche su quelle sgradevoli, ma vissute.

Il ricordo ci mette in relazione con l’animo di una scrittrice dell’Illinois, che non ha nulla in comune con noi, ma i suoi frammenti autobiografici fanno affiorare i nostri, avanti e indietro nel tempo, tanto sono limpidi, concreti ed emozionanti.

I racconti di Jo Ann Beard, Le forze della terra (Orville Press, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) si incastrano uno nell’altro, secondo un andamento non lineare e sono lampi di assoluta, magica, verità.

Jo Ann salta da un ricordo all’altro, una luce notturna nella culla, una corsa in macchina, una festa di adolescenti, un viaggio nel deserto.  Non ci sono reali collegamenti tra i ricordi, ma ci sono relazioni, che ne sono il tratto distintivo.

A fare da cardine sono le storie di legami, per lo più femminili: Jo Ann e la cugina Wendell, cresciute insieme, le madri sorelle che crescevano insieme anche loro, in un parallelismo del cuore e del corpo: embrioni, bimbe, ragazzine, mogli, madri, nonne. Ossessionate dai loro capelli, imbarazzate dai vestiti cuciti per loro con le tovaglie, complici nei giochi prima e nelle avventure di ragazzine poi, simili nel disagio comune dei momenti difficili, a dondolare i piedi al funerale del nonno, a desiderare ragazzi con gli stivali con le punte all’insù: Jo Ann e Wendell attraversano gli anni.

Il recupero dell’infanzia, e il susseguirsi degli episodi della sua vita, sono trattati dalla Beard con la ricchezza di chi non ha perso le emozioni sulla pelle, e ha fatto della memoria dei suoi sensi la sua narrazione: è questo che rende così vivido il suo racconto, profondamente umano, solidamente “piantato sul pianeta Terra”.

“Posso tirarmi su la maglietta e riempirmi l’ombelico di sabbia, solo che se lo faccio stasera mia madre la tirerà fuori con la salvietta. Sto iniziando a capire il prin­cipio di causa-effetto.”

La sorella Linda, la madre, fumatrice e distratta, il padre alcolista, il fratello fragile con un amico immaginario: la famiglia è una storia di rapporti difficili, che si dispiega in indifferenza e degenera in squallore. La morte della madre è raccontata in un’atmosfera rarefatta, in un silenzio malinconico spezzato dai gesti e dalle azioni più ordinarie, e dalle ultime frasi pronunciate, che sembrano lasciare un senso di continuo e eterno rimprovero “Voi ragazze…”.

I personaggi maschili di Jo Ann Beard sono sempre in controluce, sia i componenti della famiglia, sia i ragazzi della sua giovinezza, dolci e assenti, e gli uomini della sua vita. C’è un costante sentimento di vuoto negli episodi in cui l’autrice parla del suo matrimonio: sono fantasie giovanili irrealizzate, è una comunicazione incapace di progredire, un sentimento che si è disgregato, ma è soprattutto un desiderio di verità deluso. Non è lì la freschezza che Jo Ann cerca nella sua esistenza, perché nel matrimonio trova per lo più lontananza.

“Sono sola dentro la mia pelle e i contorni di ogni cosa hanno iniziato a scurirsi appena, ad accartocciarsi e imbrunirsi, il principio della disintegrazione. Nel mio petto un cuore inizia a bussare per uscire. Sono sola quag­giù, e lassù, aggrappata al raggio di un satellite, lo sguardo verso il velluto scuro in alto, e il velluto scuro in basso.
Non c’è niente.”

La noia unisce Jo Ann bambina e adulta, è la sua compagna attraverso le fasi della sua vita. Bambina, ospite nella casa dei nonni, mangia di nascosto zollette di zucchero e gioca con i bottoni per ingannare il tempo, vuoto, di giornate lunghissime e solitarie in camere piene di soprammobili e silenzio. Ragazza, fa continue telefonate di nascosto al bello della scuola, perché non c’è altro da fare nei fiacchi pomeriggi con le amiche. Donna, divorziata, alla soglia dei quarant’anni è catapultata di nuovo nell’adolescenza, e passa ore al telefono con la coetanea Elizabeth a parlare di ragazzi e vestiti.

Le forze della terra racconta la difficoltà di crescere, e l’inevitabilità delle fratture nel percorso della vita: sono queste che fanno evolvere, diventare adulti. Sono i piccoli e grandi traumi a forgiare carattere e sensibilità, quelle forze catastrofiche da cui non c’è nulla a difendere il pianeta dei nostri sentimenti. Se la perdita di un bambolotto, amico e schiavo dei giochi, ha la potenza di un tradimento, l’episodio centrale segna una voragine profonda, è uno spartiacque. Nel dipartimento di fisica dell’Università dell’Iowa, dove si studia tra le altre cose, il plasma, il quarto stato della materia, è una scarica inaspettata quella che ferma il tempo: è un dottorando che all’improvviso estrae una pistola e spara, a tutti.

Non c’è plasma che ci possa proteggere dalle minacce della vita, dai coyote, dalla luna, dalla paura della notte, da una violenza insensata, dalla tristezza della perdita. Ed è nei dettagli, ricercati e curati con scrupolo maniacale, che Jo Ann Beard fa affiorare la limpidezza dei ricordi ma anche l’evanescenza delle nostre vite, luminose e cupe, secondo le stagioni: sono i particolari di una scrivania di mogano nell’ufficio delle pompe funebri, sono i fiori di plastica nella casa dei nonni, i biscotti bisunti al burro di arachidi, gli occhiali da sole blu con cani Bassotto sulla montatura.

La magia del ricordo di Jo Ann Beard è la logora trapunta della nonna, stesa sotto il palco al concerto di Eric Clapton. Tra gli scacchi di tessuto, Jo Ann e sua cugina, fatte di allucinogeni, riconoscono la stoffa delle loro camicette di bambine. È quello il luogo di equilibro dell’animo, dove gli attimi coesistono nell’immobilità del tempo, ingarbugliato e pieno di chiaroscuri, di nuvole di leggerezza da afferrare e di buchi neri di dolore da attraversare.

“Riflettiamo per qualche minuto su questo, su come le cose cambiano, su come non puoi fare affidamento su nulla, e poi Wendell ricorda qualcosa. «La mia camicia sul taschino aveva un pony, la tua uno Schnauzer». E ridacchia.”

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