Arriva in Italia “Eroine”, libro nato da un blog aperto nel 2009 da Kate Zambreno, che presenta in forma spezzata spicchi di esistenza di scrittrici come Zelda Fitzgerald, Virginia Woolf, Sylvia Plath, Vivienne Eliot, Jane Bowles, Jean Rhys e altre. Autrici che, oltre il talento, hanno in comune l’aver ricoperto il ruolo di muse per gli artisti modernisti che hanno sposato o amato, e l’essere state da loro e dalla società del tempo silenziate e cancellate. Nella sua riflessione per ilLibraio.it, la scrittrice Giusi Marchetta mette in relazione il racconto che spesso i media fanno dei femminicidi con il modo in cui gli scrittori hanno raccontato le donne, comprese le protagoniste che hanno dato fama ai loro capolavori, “un’eco di quelle che avevano accanto nella vita reale”

Ogni volta che un femminicidio torna a insanguinare la cronaca, non solo dobbiamo gestire l’ondata di rabbia e amarezza per un crimine che nel 2024 è accaduto ogni 72 ore e che quest’anno si è ripetuto già quindici volte seguendo il tradizionale copione della violenza maschile, ma siamo anche costrette a rivedere sulle pagine dei giornali una narrazione dei fatti che ignora (o finge di ignorare) la natura sistemica del delitto e cerca di rifilarci la storia di chi ha ucciso per troppo amore fornendo allo stesso tempo una mezza giustificazione all’assassino e puntando sul victim blaming, cioè sull’addossare in parte la colpa a chi, rifiutandolo, ne ha scatenato la vendetta.

Anche questo è una specie di copione che continua a girare nelle redazioni dei giornali, nonostante il clima rispetto alle questioni di genere sia più emancipato rispetto al passato e una critica puntuale al modo in cui la stampa riporta questo genere di notizia sia stata al centro di numerose battaglie e prese di posizione da parte di intellettuali e giornaliste come, per citarne alcune, Michela Murgia, Vera Gheno, Silvia Grasso.

Eroine di Kate Zambreno

La cronaca che racconta le vittime di femminicidio mi fa pensare in generale al modo in cui gli scrittori hanno raccontato le donne, comprese le protagoniste che hanno dato fama ai loro capolavori, un’eco di quelle che avevano accanto nella vita reale.

Nel libro di Kate Zambreno, Eroine (nottetempo, traduzione di Federica Principi), si può riscoprire una ricostruzione suggestiva e incalzante di questo rapporto. Nato dall’esperienza di un blog, Frances Farmer Is My Sister, il saggio presenta in forma spezzata spicchi di esistenza di grandi scrittrici come Zelda Fitzgerald, Virginia Woolf, Sylvia Plath, Vivienne Eliot, Jane Bowles, Jean Rhys e altre, che, oltre il talento, hanno in comune l’aver ricoperto il ruolo di muse per gli artisti modernisti che hanno sposato o amato, e l’essere state da loro e dalla società del tempo silenziate e cancellate.

Si tratta di un mosaico impressionante per il numero di aneddoti e dettagli riportati su ciascuna delle autrici, ma anche perché la voce di Zambreno si mescola alla materia narrata con fin troppa agilità a partire dalla propria condizione di intellettuale temporaneamente senza lavoro / moglie in ombra di un accademico riconosciuto nel suo ruolo di docente e autore / scrittrice che non riesce a produrre come vorrebbe.

Questa situazione permette a Zambreno di calarsi nelle vicende delle sue eroine e di raccontare da vicino una condizione collettiva di inferiorità imposta come un marchio sul loro essere donne e artiste. Da questa premessa l’autrice si concentra a raccontare il malessere che ha infestato le loro vite e che, a prescindere dalla diagnosi che potrebbe essere fatta oggi (schizofrenia, depressione, disturbo bipolare) ha preso per tutte il nome di “isteria”. Un nome che era anche una minaccia.

“Vivien(ne) aveva sedici anni quando la madre si rivolse al medico di famiglia per controllarla. Dosi di bromuri per ‘l’isteria’. Le gocce di Hoffman, sciolte nell’etere. L’alito costantemente impregnato. Un’aria vampiresca. Corredata da fondotinta bianco per coprire le macchie prodotte dai bromuri. ‘E così ebbe avvio l’iter per tranquillizzare Vivienne’.  (…) A Zelda venne iniettato il suo stesso sangue oltre a un ‘siero prodotto con il cervello di un individuo mentalmente stabile’.  Inoltre: belladonna barbiturico morfina stramonio digitalis purpurea Idroterapia: purghe impacchi”.

Curare la cosiddetta isteria delle donne è qualcosa che si è fatto nel corso del Novecento attraverso numerosi, truci rimedi: dalla lobotomia alla condanna al manicomio e alle devastanti pratiche in uso al suo interno. Tutto pur di evitare quelli che apparivano comportamenti non consoni alla buona società nella società in generale. Non per una donna.

Gli appunti di Leonard Woolf su Virginia ricordano gli studi clinici di Freud e Breuer sull’adolescente isterica denominata Anna O. In uno stato malinconica e ansiosa, nell’altro “allucinava, era ‘cattiva’, vale a dire imprecava”. Strappava bottoni. Lanciava cose. Accessi di rabbia che Freud chiama “assenze” – come se fosse assente da sé. Dev’essere una malattia, questa violenza. Non c’è altro modo per spiegare il fatto che uno s’incazzi.

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Eppure motivi per essere furiose e violente e lanciare cose ce n’erano in abbondanza. Solo che lamentarsi dell’essere soggette a un mondo che le voleva obbedienti, accudenti, mai padrone neanche di sé stesse, non stava bene. E quindi eccole, queste donne che si ribellavano, al tempo stesso malate e libere di urlare.

Per certi versi la “malattia” socialmente approvata era l’unico modo per lei di aggirare lo stretto codice di comportamento, di perdere le staffe, lasciarsi andare un po’, protestare (per quanto la protesta fosse spesso silente e incredibilmente dolorosa). Si sdoppia – l’angelo, il mostro. Certo, poi la violenza viene attenuata – la rivolge contro sé stessa.

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Libere fino a un certo punto, quindi. Ma sempre con uomini accanto che non hanno mai smesso di prendere appunti perché quell’essere vive fuori dagli schemi sociali le rendeva attrattive sulla pagina quanto difficili da gestire nella quotidianità.

Questi uomini si presero cura delle loro mogli invalide. Tennero elaboratamente nota dei sintomi presentati dalle loro spose.

Nasce così la musa ispiratrice, che è donna da reinventare perché sia ammaliante e spaventosa per i lettori, la dark lady o la Emma Bovary che attraversa la vita a modo suo, ma senza il suo carico di persona reale con cui fare i conti. E al netto del suo talento ovviamente.

Zambreno racconta con struggente spietatezza quanto la “malattia” sia costata a ciascuna delle scrittrici citate sottraendo loro energie e spazi da dedicare alla scrittura. Si potrebbe obiettare che le crisi depressive, i disturbi della psiche e in generale tutte le tribolazioni che mettono a dura prova le nostre giornate (quelle che la stessa Zambreno descrive con efficacia parlando in modo libero e duro della sua esperienza) non facciano differenze e che numerosi artisti si siano confrontati con crisi anche profonde.

Kate Zambreno, foto di Heather Sten

Kate Zambreno nella foto di Heather Sten

Questa obiezione, valida senza dubbio per quello che riguarda lo stigma relativo alla salute mentale delle persone, non terrebbe però conto della “naturale” autorevolezza degli autori come Flaubert o Eliot, la cui “isteria” non avrebbe causato la stessa esclusione sociale né soffocato la loro indole artistica perché, essendo uomini, nessuno ha preso per loro la decisione di punirli per le manifestazioni delle loro nevrosi, né di rinchiuderli da qualche parte fino a un’eventuale guarigione. Al contrario, come sostiene Zambreno, questi artisti che “feticizzavano e vampirizzavano la donna piena di eccessi (nei loro testi) mentre nella vita la disciplinavano, la punivano”, usavano gli aspetti distruttivi e autodistruttivi delle loro compagne per raccontarle a modo loro. Un modo che rimane spesso superficiale, se l’opinione generale delle donne in quanto artiste è che non abbiano nulla di interessante da raccontare.

La seconda metà del libro si addentra, infatti, sul tema della scrittura, ponendo in rilievo in modo dolorosamente chiaro che se una differenza tra scrittura maschile e femminile esiste è da cercarsi anche nel modo in cui viene socializzato il ruolo di chi scrive nella società.

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Nel suo saggio su Sylvia Plath scrive: “Ogni artista è o uomo o donna e le difficoltà sono perlopiù le stesse per entrambi”. Mi lascia di sasso. Quando penso a Jean Stafford che punta la sveglia all’alba per lavorare come segretaria alla Southern Review (Lowell era alla Louisiana State a studiare con Robert Penn Warren), poi torna a casa per preparare il pranzo ai ragazzi, i poeti uomini che ancora cullavano il doposbornia della sera prima. Eppure trovava comunque il tempo per scrivere. Sylvia che si alzava alle quattro di notte per essere scrittrice prima che casalinga. A battere a macchina le poesie di Ted. Erano le segretarie dei mariti, come Viv con Tom.

Mogli, segretarie, a volte madri. Poi scrittrici. Anche perché la scelta di dedicarsi alla scrittura in qualsiasi parte della giornata deve essere difesa con le unghie e con i denti a fronte di carriere di scrittori che partono lentamente, mentre si scrive in una stanza tutta per sé, in una casa dove si fa silenzio per non disturbare e dove se c’è un problema di natura pratica o si deve fare in modo che i bambini siano nutriti, puliti, accuditi, tenuti in vita, insomma qualsiasi cosa accada oltre quella porta sarà risolto da qualcun altro. Qualcuna che non scrive.

Quale memoria resta quindi di queste scrittrici se hanno dovuto lottare anche solo per poter produrre una pagina? Su questo la ricerca di Zambreno sa gettare una luce quasi poetica quando regala immagini sparse di chi, internata o prigioniera, ha usato cenere e sangue per scrivere, lasciare una traccia. Ed è singolare (ed è la parte più dolorosa del libro) con quanta forza ancora oggi la voce di queste eroine debba lottare per essere riscoperta visto che se in vita sono stati i mariti a tentare di cancellarla, ora da scomparse, siano le fondazioni che tutelano l’opera dei mariti a occuparsi di mantenere nascoste la loro narrazione dei fatti, le lettere, le poesie, i racconti.

Non abbiamo accesso agli ultimi tre anni di cronache in prima persona della vita di Sylvia Plath. Uno di questi volumetti rilegati “sparì”. Ted diede fuoco al secondo “libro mastro dal dorso granata”, al cui interno c’erano appunti risalenti fino a tre giorni prima della morte. Per i bambini. Ci raccontano che il 1919 è stato l’unico anno di matrimonio in cui Vivien(ne) ha tenuto un diario. È davvero così? Cosa le ha impedito di scrivere in tutto il resto del tempo? sopprimi il sopprimibile. Le loro parole vengono soppresse. Scott pose un veto alla pubblicazione dei diari di Zelda.

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Se è vero che il proposito dell’autrice è quello di salvare la memoria di queste donne, non credo che l’obiettivo fosse riuscirci in modo esaustivo, ma di indicare una strada. Non solo a tutte le persone che si battono perché abbiano voce le soggettività oppresse dalla società patriarcale, ma anche a tutte quelle che scrivono oggi. In questo senso Eroine regala a chi legge un sentito omaggio alla scrittura, compresa quella prodotta gratuitamente online, perché dà la possibilità di lottare “contro la sensazione di illegittimità e invisibilità, di essere fantasmi nel mondo reale”.

Alle scrittrici di oggi Zambreno consiglia di riscrivere il proprio ruolo da outsider, di riprendersi un profilo inventato e scritto da altri perché ci assomigli davvero, di non temere le etichette sminuenti di chi considera la scrittura femminile buona per raccomandare diete e sognare banali storie d’amore.

Dal femminicidio al carico mentale delle donne, dal gender pay gap alla maternità, dalla crisi economica alla radicalizzazione della politica, sembra anche a me che ci sia un’urgenza di riprendere una narrazione che si fa ancora una volta strumento di potere, un modo per opprimerci a colpi di stereotipi e cancellarci in vita.

Sentire quell’amarezza ogni volta che leggiamo il resoconto distorto dell’uccisione di una donna a causa della violenza maschile rinnova la sensazione che la voce delle donne non conti oggi come ieri. Per fortuna non è così. Ce lo ricordano le piazze che gridano al posto di chi non c’è più, la penna di chi scrive, la consapevolezza che quelle parole contano e si sommano a tutte quelle che hanno cercato di cancellare senza riuscirci.

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