Pierluigi Battista, giornalista e autore, ha saputo parlare di sé in libri come “Mio padre era fascista” o “La fine del giorno”, o ancora “A proposito di Marta”, che hanno sì una curvatura memorialistica o autobiografica, ma rappresentano anche una sorta di autobiografia del tempo collettivo. Nel romanzo epistolare “La casa di Roma”, come spiega su ilLibraio.it Mario Baudino, passa la parola ai più giovani, quasi facendo ammenda a nome dei “vecchi”. Ma con la sua ironia inconfondibile e il divertimento intellettuale, che gli consentono una sorta di pietà un po’ melanconica

Tradimenti, è proprio la parola chiave che mi stuzzi­ca”, scrive Marco, voce narrante o meglio organizzatore delle voci altrui, chiedendo alla madre e a uno zio di ricostruire per lui gli aspetti oscuri e taciuti della sua famiglia romana, tre generazioni dagli anni del fascismo a oggi – con un breve excursus sul prima, sull’arrivo in città e l’insediamento nel quartiere Prati dei capostipiti pugliesi.

Prati significa borghesia agiata e, nel caso specifico, anche intellettuale, quella cioè che nel tempo più si è dimostrata incline a certi innamoramenti ideologici: qui, in una proporzione molto romana, per ragioni storiche anche ovvie che non si rinvengono altrove, divisa equamente in fascisti e “comunisti”, in orizzontale (tra fratelli o tra cugini) ma soprattutto in verticale (tra padri e figli).  Anche per questo La casa di Roma, il romanzo di Pierluigi Battista appena uscito per La Nave di Teseo, è appunto una storia di tradimenti e ricomposizioni. E di sforzi, spesso frustrati, di umana comprensione.

Copertina del libro La casa di Roma

Battista ha saputo parlare di sé in libri come Mio padre era fascista o La fine del giorno, o ancora A proposito di Marta, che hanno sì una curvatura memorialistica o autobiografica, ma rappresentano una riflessione emotiva e culturale sulla propria vita in rapporto alla storia, una sorta di autobiografia del tempo collettivo. In questo romanzo il punto di vista cambia, viene in qualche modo trasferito dall’autore non a personaggi dove potrebbe tuttavia rispecchiarsi almeno in parte (e peraltro non manca di farlo) ma alla generazione successiva, quella dei nati a cavallo del Millennio: ai figli che ci guardano, ci giudicano, ci comprendono o ci equivocano. La generazione di Battista, passata ancora giovanissima attraverso il ’68 e cresciuta nell’atmosfera rovente degli Anni Settanta, cerca uno specchio, come tutti gli specchi magari deformante: una prospettiva diversa, un volto che forse si rivela solo attraverso lo sguardo dell’altro, del più giovane, di chi in fondo è già oltre. E forse capisce, forse no.

La casa di Roma è un romanzo epistolare. Marco, sceneggiatore in via d’affermarsi, superata la trentina lancia la sfida non solo a madre e zio ma a tutti i parenti, per mettere insieme coralmente, e dialetticamente – posto che ognuno finisce per leggere le lettere dell’altro, ora consentendo ora contestando -, una lunga storia non solo di “tradimenti” ma anche di piccoli equivoci non privi di importanza, di nostalgie, rimpianti, perdite dolorose, sogni, vedovanze, umana pietà e risentimenti. La sua intenzione è di scrivere un romanzo usando i materiali che riceverà, e le risposte che ottiene sono addirittura entusiastiche, tanto che di lettera in lettera il libro si scrive da solo, senza che lui debba aggiungere o togliere nulla, solo stimolare. I panni sporchi, e anche quelli puliti, si laveranno in pubblico. Marco non giudica, semmai provoca per ottenere ogni volta qualcosa in più. Il suo ruolo è puramente maieutico.

La formula è interessante, dal punto di vista strutturale, perché consente di inglobare prospettive diverse: c’è Leonardo, un medico piuttosto dottrinario e molto di sinistra; Raffaello, un giornalista che si è confinato in un paesino come per scontare un errore; Anita, la madre, storica dell’arte; e naturalmente molti altri, ognuno perso dietro ai fatti suoi (ma tra le canzoni citate, diremmo con tenerezza, in questo libro, quella di Vasco curiosamente non figura). Spiccano i personaggi rammemorati, ovvero i nonni: un giurista che è diventato esponente di prestigio del PCI, “prigioniero di una tetraggine mentale quasi caricaturale”, con una macchia nel passato; e suo fratello, regista di non gran nome e “fascista”, legato a lui da una segreta solidarietà. Ci si può chiedere dove Battista situi se stesso nella grande e tormentata famiglia: l’impressione è che si disperda in molti dei componenti, anche se lo zio Raffaello, il giornalista, pare quello a lui più vicino. E ci sono gli eventi storici, il ’68, gli scontri di piazza, l’uccisione nel ’75 dello studente greco di estrema destra Mikis Mantakas, anche lui visto in una vicenda i padri “traditi”, considerato che i suoi genitori erano di sinistra, perseguitati da quel regime dei colonnelli caro invece alla nostra destra.

Battista, ironico osservatore del costume e della politica, demitizzante e a volte pessimista, non si nega qualche riferimento, mascherato e trasposto, a personaggi e ad episodi che pure ebbero rilevanza negli Anni Novanta: come la pubblicazione di una lettera a Mussolini scritta nel ’35 da un giovane e ossequioso Norberto Bobbio, il filosofo della politica che era (e resta, anche dopo la sua morte) una bandiera democratica. Raffaello, da giornalista, aveva diffuso infatti una casuale scoperta archivistica della sorella Anita a proposito dello zio comunista, colpevole di una debolezza di quel genere. Lo scandalo che ne nacque, unito al contraccolpo di documenti imbarazzanti emersi immediatamente dopo circa suo padre, il fascista, è diventato per lui un perdurante senso di colpa: e nonostante tutte le considerazioni possibili sul dovere di un giornalista, ora non riesce a superarlo. Si direbbe questo il cuore del romanzo, la domanda senza risposta sulle scelte di ogni nuova generazione: dipendono dal rapporto col padre, dal desiderio di freudianamente “ucciderlo”, o dalla forze indistinta e poco gestibile delle passioni ideologiche? O semplicemente dalla piccole bugie e dai grandi, inconsapevoli tradimenti?

C’è chi come Eugenio, musicista un po’ fallito, “figlio di una sinistra bacchettona” e reduce fortunato dalla sbandata per l’estrema destra (conclusasi però con un ottimo matrimonio democristiano), non ha dubbi in proposito: in una sua testimonianza fa del sarcasmo pesante, pur senza nominarlo, anche sulla morte di un poeta come Valentino Zeichen, che viveva in una baracca, dandy bohémien, e probabilmente davvero non è riuscito a sopravvivere all’ultima cocente delusione legata a un premio letterario. Verrebbe da intimargli di chiudere il becco, ma nessuno dei famigliari sembra interessato, neanche Anita che pure, secondo Eugenio, si era data un certo da fare al proposito.  E c’è chi, come Raffaello, moltiplica i dubbi: sono quelli del romanzo stesso. Il suo ultimo scritto, una sorta di lascito testamentario, enigmatico e nello stesso tempo seducente, propone una lunga serie di liste, quelle popolarissime fino a qualche tempo fa sui dieci film migliori o i dieci calciatori della Juventus o le dieci frasi che non si dovrebbero pronunciare mai; insomma, un riassunto (ancora uno specchio) dell’enigmatico aspetto della vita emozionale trasformato in un elenco (non del tutto) scherzoso; con i suoi errori, quel misto di tenerezza e brutalità, di canzoni e di sogni, di istanti, di perdizione, di utopia, cui Marco guarda già da un altro punto di vista, e da una ancora incerta e incommensurabile prospettiva.

La casa di Roma passa la parola ai più giovani, quasi facendo ammenda a nome dei “vecchi”. Ma con l’ironia inconfondibile di Battista, e il divertimento intellettuale (a questo proposito andranno rilette con attenzione le due epigrafi) che consentono infine una sorta di pietà un po’ melanconica; per un tempo forse non formidabile, ma non certo del tutto perduto.

Fotografia header: GettyEditorial 23-08-2021

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