Il tragico impallidisce di fronte ai riverberi e agli abissi che rivela in un tocco, e a un tempo, la comicità precisa, senza tregua, di questa commedia: ecco perché non perdere “La pulce nell’orecchio” di Georges Feydeau secondo Carmelo Rifici (fino al 26 novembre al Teatro Strehler di Milano) – La recensione

Tetris marshmallowso scomposto e Lego gigante color pastello. Palco giochi e re-parto arlecchinesco di gomma piuma. Cubo di Rubik sbiadito e muro di scatole cinesi variopinte da rompere e abbattere. Carillon e giostra (rivoluzione).

La scena di questo La pulce nell’orecchio di Georges Feydeau secondo Carmelo Rifici (firmata da Guido Buganza) è uno spazio astratto e insieme palpabile, attutito e spigoloso a un tempo, di gomma e di corpi, di lotta e di danza, manicomio e luna park, contenimento ed esplosione, dove il verbo, irrorato di lacrime profumate, è principio di energia (e di regia), alchimia del comico che sboccia e illumina, ribolle di sapone e gioca d’incastro, rischia e libera, mette tutto e tutti in gioco. L’azione/reazione è un “to play” allo stato puro (gioia attoriale e spettatoriale): giocare, suonare, recitare senza soluzione di continuità.

Uno spazio franco, regno (dell’)equivoco, sogno del doppio, di una babele di lingue, dialetti, vocalizzazioni, difetti di pronuncia e messaggi cifrati, che non si capiscono quasi mai fra loro ma (o proprio per questo) s’inseguono, fra tradimenti e travestimenti, traduzioni e trasformazioni, in un luogo magico in cui tutto è porta girevole e scatola a doppio fondo, lavagna e palinsesto, accorato invito all’out of the closet, stupore da coniglio dal cappello, espressione quasi musicale, quella di un ritmo forsennato e contagioso, perfetto e tuttavia sbavato, ma autentico.

Ecco che l’apparentemente datato e l’odierno indicibile (secondo quel che correttezza politica vorrebbe e filologia seppellirebbe) del testo orologeria del genio del vaudeville diventa qui teoria assoluta della maschera e presentissimo divertimento, lo scherzo si fa materia serissima e deflagrante, questione millimetrica di vita e di morte, atto salvifico, pro-vocazione fertile, fatta di cadute e calambours, citazioni ed eccitazioni (quelle nel testo e quelle fuori di testo), che vanno da Charlot alla commedia sexy anni Settanta, da Mr Bean a Shakespeare, dalla musica pop al cinema del dopoguerra, fra invenzioni e lazzi, commedia dell’arte e arte della commedia. E chi ha orecchie per intendere può entrare facilmente in questa tenda da circo, e riconoscersi pulce, elemento infinitesimale di disturbo, di paradosso e di consapevolezza.

Il tragico impallidisce di fronte ai riverberi e agli abissi che rivela in un tocco, e a un tempo, la comicità precisa, senza tregua, di questa commedia.

Risuona l’eco ribelle del monito di Bakunin: “una risata vi seppellirà“. Ma la forza destabilizzante del riso è molto di più di una rivolta ideologica all’ordine costituito (che già varrebbe il piacere), ma una forma di pensiero che apre squarci illogici e stranianti (illuminanti) sulla morte (in un mondo in cui pare non poter morire davvero nessuno), sul doppio (non solo come stratagemma dell’equivoco ma come possibilità inquietante di guardarsi allo specchio), sul potere della parola come atto performativo, formula alchemica, con i sui suoi innumerevoli (e non solo duplici) sensi.

Un cast fenomenale di giovani vulcanici e poliedrici (vale citarli tutti, occorrerebbe una recensione per ciascuno di loro: un filo più senior sono Fausto Cabra, Christian La Rosa, Carlotta Viscovo, e freschi di scuola, eppure più professionisti di molti professionisti, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi) anima la scena, rompe le scatole, rimbalza e pulsa come ingranaggio di un meccanismo vivente, oliato e sifisticatissimo. Il tutto in una dimensione di caduta libera sempre magicamente salvata in extremis: maestria dello stare in equilibrio collettivo su una scena pulsante e imprevedibile.

Sembrano (sono) una ciurma piratesca di bambini perduti nell’isola che non c’è che ha nome teatro.

Intonano e stonano, suonano e risuonano in noi, vanno a un ritmo da mozzare il fiato, per tre ore, in questa traduzione/tradimento/adattamento speciale e riuscito di Carmelo Rifici.

Coadiuvato nella riscrittura scenica da Tindaro Granata (che gioca anche un doppio ruolo, con decisivo tocco chapliniano), il regista intuisce pienamente la forza attuale di un autore, Feydeau, ingiustamente ignorato dai cartelloni nostrani, uno che scriveva la notte e di nascosto, e che a inizio Novecento respirava e traduceva in immaginario godibile e perturbante le intuizioni di cinema e psicanalisi.

Compiacendo il pubblico, lo adescava con pruriginosi bluff, buchi della serratura, lettere trappola, capaci di ritorcersi contro di lui in momenti rivelatori dell’anima, superfici profondissime, che Rifici sa leggere e lascia attraversare liberamente dai suoi giovani pirati, che peterpanescamente (e forse non a caso il personaggio di Barrie è coevo delle fantasie di Feydeau) abitano questa avventura.

Anche la morte sarà una grande avventura, dice Peter Pan sullo scoglio nel mare in tempesta. E un nucleo oscuro e nero si nasconde in piena vista in questa commedia giocosa, dietro al cubo color pastello, il fondo trasformativo di un nero armadio, in cui risuonano le voci vere di questa pochade, le ombre di qualcosa in fondo alla tasca, che val la pena di scoprire.

Spero almeno di avervi messo la pulce nell’orecchio.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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