Edoardo Camurri torna in libreria con “La vita che brucia” per Timeo, un pamphlet filosofico che raccoglie il testimone del precedente successo “Introduzione alla realtà”. Ma se lì il tono era quello pacato di un manuale esistenziale, qui la voce diventa più feroce, incandescente, in bilico tra oracolo e mito: dalla sofferenza come motore dell’identità ai lampi aforistici, costruendo un vero atlante in fiamme. Un libro che non offre consolazioni, ma un linguaggio per abitare il dolore, ricordandoci che “il semplice fatto di esserci è già la risposta”…
Dopo l’apprezzato Introduzione alla realtà (Timeo, 2024), Edoardo Camurri torna in libreria con un libro che non è un seguito del precedente, ma una vera e propria esplosione delle tematiche: La vita che brucia (Timeo, 2025).
Se nel primo lavoro lo scrittore-filosofo-conduttore classe ’74 accompagnava lettrici e lettori con il tono pacato e quasi pedagogico di un manuale all’esistenza, qui la voce cambia, radicalmente: non più un timoniere calmo che insegna a navigare in un lago freddo, ma un osservatore primigenio – a tratti sovrumano – che brucia e arde insieme a ciò che racconta.
E a ogni frase, come una scintilla nell’oscurità, sembra sussurrarci: osa seguirmi fino in fondo.

Il cuore del libro è la sofferenza: la più antica e universale, la più ineluttabile delle esperienze umane. Camurri non la rimuove né la addolcisce, ma la pone al centro della sua cosmologia personale; moriamo in continuazione, scrive, e lo fa con un tono che non concede tregua: ogni istante è già un morire, ogni ricordo un argine che opponiamo all’oblio.
Nel farlo realizza un pamphlet dal carattere originale, dove l’ossatura stessa del testo è un continuo cortocircuito fra mito antico e frammento quotidiano. Lo scrittore – che fino a metà gennaio 2024 ha condotto su Rai 3 il programma Alla scoperta del ramo d’oro – adatta Eraclito alla modernità, mette in dialogo Marx con le Upanishad, lascia che la cicala delfica canti accanto a un frammento lisergico.
È un libro che procede per stratificazioni: filosofiche, poetiche, diaristiche. La vita appare come “sussulto bellico“, un campo di battaglia in cui l’esistenza si offre non come teoria, ma come pratica atmosferica.
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In questa commistione di voci e generi, infatti, ogni movimento ha una “temperatura” diversa: dal racconto posato e a tratti etereo all’invettiva vigorosa, fino al un dialogo indagatore con interlocutori interni alle pagine.
Ogni capitolo si chiude così con una voce che interroga e mette in crisi quanto appena affermato: una sorta di contrappunto socratico che impedisce al testo di cristallizzarsi (o, più brutalmente, crogiolarsi) in sé stesso. Non si tratta di un vezzo stilistico, ma della messa in scena di un pensiero che non si accontenta mai, che rifugge la consolazione e preferisce l’attrito. In certi momenti, di fatto, il tono è ferocemente (auto)critico, come se l’autore si rivolgesse al sé che scrive, sfidandolo a non cadere nella retorica.
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“Ogni cosa è ciò che è in quanto, non essendo tutto il resto, presuppone tutto il resto”. In questa formula Camurri distilla una verità filosofica che mette in crisi l’idea tradizionale di identità come nucleo solido e autosufficiente. L’essere non si dà in isolamento, ma solo come parte di una costellazione più ampia: io sono io perché non sono tutto ciò che non sono; il paradosso della negazione che diventa fondamento dell’affermazione. Ed è qui che si inserisce l’altra immagine fulminea: “L’Uno è Uno perché, non curandosi di sé stesso, gioca a far apparire un mondo”. L’identità, dunque, non si fonda sul ripiegamento narcisistico, bensì sull’apertura, sul gioco, sul lasciar essere altro da sé.
In questo senso La vita che brucia si configura come un trattato poetico (e mitopoietico nella sua essenza primordiale) sull’interdipendenza, dove ogni esistenza è sempre già in relazione con il tutto, e il soggetto non è altro che una forma momentanea di un dialogo cosmico.
Eppure, a fronte di queste altezze filosofiche, la voce narrante non si sottrae mai alla crudezza della condizione umana: “Pensavi di sedere in cima a una montagna, ma non hai mai alzato il culo dalla merda” è una frase che suona come un pugno nello stomaco, volutamente triviale, quasi scandalosa nella sua materialità. Ma è proprio questo il contrappeso necessario: nessuna visione del mondo può ignorare la nostra natura terrena, corporea. Non basta contemplare la vetta, se non si ha il coraggio di misurarsi con il fango con cui siamo impastati.
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“Il gatto è gatto solo perché dimentica lo spavento”.
L’aforisma riportato, a un primo sguardo lieve, racchiude una delle intuizioni più potenti del libro: l’identità non è solo relazione, ma anche oblio. Il rimando al “gattone” (citando un appellativo dello stesso Camurri) in copertina, opera di Louis Wain, non è un dettaglio ornamentale: il pittore, celebre per i suoi felini visionari e allucinati, diventa il simbolo perfetto di questa idea. L’animale, con i suoi occhi spalancati sul mondo, vive dimenticando ciò che lo ha ferito, e proprio in questo oblio ritrova la sua essenza. Così anche il pamphlet funziona come un esercizio di dimenticanza selettiva: ci ricorda il dolore, ma ci invita al tempo stesso a non fissarci su di esso, a trasformarlo in esperienza che si brucia e si lascia bruciare.

La copertina di Introduzione alla realtà di Edoardo Camurri.
D’altronde, “tu nuoti bene solo se dimentichi l’acqua“.
Camurri procede in bilico costante tra vertigine metafisica e sberleffo carnale, tra l’oracolo e la barzelletta. Non è mai un compromesso, ma un ritmo interno: un continuo scarto che impedisce alla riflessione di diventare dogma e al sarcasmo di farsi puro cinismo. L’effetto è quello di un pensiero che brucia davvero, perché non si posa, non si lascia addomesticare. In questo senso La vita che brucia non è soltanto un testo da leggere, ma da vivere: un esercizio di discontinuità, un invito a restare aperti al cortocircuito tra l’assoluto e il quotidiano.
Se Introduzione alla realtà era un prontuario che insegnava a fare i conti con l’acqua gelida del vivere, La vita che brucia è un atlante che prende fuoco nelle mani di chi lo sfoglia. Ogni pagina è un frammento incandescente: un mito riattualizzato, un aneddoto autobiografico, un lampo filosofico. Il libro non fornisce una via di fuga dal dolore, ma un linguaggio per abitarlo. E forse questa è la sua forza più grande: ricordarci che “il semplice fatto di esserci è già la risposta“.
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