“Le divoratrici” parla di appetito, di corpi e di spazi: quelli che una donna ha – risicati e asfissianti -, e quelli che vorrebbe conquistare. Nel suo romanzo d’esordio, Lara Williams affronta i temi del patriarcato e dell’oppressione femminile attraverso la metafora della fame. Fa riflettere come, per una donna, non serva organizzare lotte clandestine per trasgredire alle regole sociali: le basta semplicemente mangiare quanto vuole – L’approfondimento

Le divoratrici (titolo originale, Supper Club) parla di appetito, di corpi e di spazi: quelli che una donna ha – risicati e asfissianti -, e quelli che vorrebbe conquistare.

Nel suo romanzo d’esordio, pubblicato da Blackie Edizioni e tradotto da Dafne Calgaro e Marina Calvaresi, Lara Williams affronta i temi urgenti del patriarcato e dell’oppressione femminile attraverso la metafora più immediata: quella della fame, e del corpo che si espande quando la si asseconda.

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La protagonista si chiama Roberta. La incontriamo quando è sulla soglia dei trent’anni, ma la narrazione riavvolge il nastro a più riprese, in un continuo rimbalzo tra presente e passato, fino ai tempi dell’università. Sono anni, quelli, che Roberta vive in solitudine, incapace di farsi degli amici, preda della nostalgia di casa, con addosso un costante senso di inadeguatezza.

Cucinare è il suo unico diversivo, l’unico appiglio – “era pur sempre un passatempo”. E così Roberta cucina, cucina per scandire le sue giornate, per dare una ragione al suo continuo mangiare, cucina a volte ingozzandosi, a volte per offrire il cibo ai suoi coinquilini, altre per gettarlo via.

Cucina, ingrassa, poi dimagrisce, odia il suo corpo, non si piace, e intanto vive in una solitudine alienante, muovendosi come uno spettro per il campus, “ogni giorno più ansiosa e rinsecchita”.

Dieci anni dopo, Roberta lavora per un sito web di moda, si occupa di compilare descrizioni prodotto.

In ufficio conosce Stevie, un’artista eccentrica e poco convenzionale. Tra loro parlano di ciclo mestruale, degli scrittori maschi che odiano, dei film che preferiscono. La loro amicizia è intensa, irresistibile, a tratti malsana.

Roberta è attratta da Stevie fin da subito, in un modo che non sa spiegare – e che, infatti, non viene mai del tutto spiegato. Ben presto, scivolano “in una dinamica matrimoniale”: prendono in affitto un appartamento, vanno a vivere insieme, si dividono i compiti domestici. Insieme, cercano un modo per violare le convenzioni sociali, e “quale violazione più massiccia di un’adunata di donne impegnate ad appagare i propri appetiti e a occupare spazio?”.

Fondano il Supper Club, una società segreta di sole donne che periodicamente s’incontrano per cedere ai propri appetiti. Sono donne che hanno subito tradimenti, violenze, aborti. La stessa Roberta è stata stuprata (“mi venne in mente di urlare, ma all’idea di me che lo facevo, mi sentii stupida e teatrale”), e ha avuto una relazione abusiva con un professore più grande di lei.

Durante le serate del Supper Club, queste donne mangiano fino a star male, divorando il cibo con le mani; ballano, urlano, fanno uso di droghe, vomitano, sporcano, distruggono. Davanti a una società che le vuole carine, docili, gradevoli allo sguardo maschile, loro si abboffano e guardano con gioia il proprio corpo ingrandirsi: “volevamo espanderci ed essere sfamate; volevamo sapere che cosa si provava. A sentirsi piene come un uovo, anziché avide e fameliche tutto il tempo”.

Il Guardian ha definito Le divoratrici “un Fight Club femminista”. Fa riflettere come, per una donna, non serva organizzare lotte clandestine per trasgredire alle regole sociali: le basta semplicemente mangiare quanto vuole.

Il rapporto con il cibo è centrale. Nelle prime pagine, Williams scrive che “l’essenza del cibo ha sempre un che di delizioso e al tempo stesso ripugnante”. Nel corso del romanzo, quest’ambivalenza esplode. C’è qualcosa di ossessivo, nelle digressioni culinarie su preparazioni, metodi e tempi di cottura di soufflé, chilli o zuppe. Dettagli morbosi passano in prima linea, come il piacere di tenere una fettina di roastbeef sulla lingua (“la carne rosata del mio corpo che culla la carne di qualcos’altro”), oppure la consistenza del soufflé, “fatto per essere voluminoso”, perché “deve prendere molto spazio sul piatto”. Parlando degli spaghetti alla puttanesca, l’autrice giunge alla conclusione che “niente fa più paura di una donna che mangia e scopa con abbandono”. Quando Roberta si taglia, incidendosi la coscia, il sangue che ne viene fuori è “rosso come la salsa di pomodoro”.

Come evidenziato dal Guardian, la voce di Williams ha molto in comune con quella di Sally Rooney: colloquiale, precisa, squisitamente millennials. Tocca l’eccellenza proprio negli affreschi delle ricette, così particolareggiate da far venire fame perfino a chi legge. Come fosse un grande manifesto, un inno a mangiare, a urlare, a liberarsi.

Fotografia header: Le divoratrici Lara Williams - foto di Justine Stoddart

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