Un romanzo inquietante, profetico in modo inspiegabile. “Le venti giornate di Torino” è stato riscoperto dopo una lunga vita clandestina, e ed è tornato in Italia attraverso un viaggio nel mondo anglosassone. L’autore, Giorgio De Maria, nato nel 1924 e scomparso nel 2009 dopo essersi precocemente ritirato dalla scrittura, a lungo dimenticato, è infine entrato nella storia della letteratura, in quella particolare zona di ombre e di buio che è il fantastico nella versione più demoniaca. Ne parla su ilLibraio.it Mario Baudino, che ricorda come questo libro “maledetto” del ’77 vada collocato in un contesto particolare, quello dei primi anni di piombo, in un capoluogo piemontese incupito e minacciato…
Nel 1988 Gianfranco Contini aveva ristampato per Einaudi Italia magica, l’antologia di “racconti surreali novecenteschi” (come da sottotitolo) da lui originariamente pubblicata in francese nel ’46. E nella breve prefazione, per lui non smentita da quanto era accaduto nel frattempo, ribadiva che il monopolio della sensibilità magica, che “si suole assegnare alle brume del settentrione”, trovava da noi, come in Francia, una diversa declinazione: quella di “isolare l’eccezione attraverso i filtri dell’ironia”, da Palazzeschi a Mario Soldati a, poniamo, un autore periodicamente dimenticato e riscoperto come il grande Enrico Morovich.
Già allora però un altro scrittore altrettanto dimenticato avrebbe potuto comunque, se non dargli torto, rendere più complicata la partizione grazie a un breve romanzo, dei quattro che pubblicò in vita, uscito nel ’77 da un piccolo editore (Il Formichiere) e sostanzialmente ignorato – non solo da Contini – se non da una piccola cerchia di devoti: Giorgio De Maria, che con Le venti giornate di Torino, incubo notturno in una città da incubo, non tanto per magia quanto per forza d’orrore e di spavento, aveva creato il suo piccolo capolavoro sconosciuto, destinato a riaffiorare dopo molti anni per una serie di circostanze apparentemente casuali, e ora riproposto da Neri Pozza.
De Maria, nato nel 1924 e scomparso nel 2009 dopo essersi precocemente ritirato dalla scrittura e in generale dalla vita letteraria, forse per delusione, forse per un’insorgenza di follia, quella stessa che sembra alleggiare nella sua ultima opera, non era un outsider, ma un protagonista della vita culturale non solo torinese.
Critico teatrale, musicista, compagno di strada di Sergio Liberovici, Michele Straniero, Italo Calvino, Franco Fortini e Fausto Amodei nel gruppo Cantacronache (che cercava una strada colta e popolare per la canzone italiana), collaboratore de Il Caffè, l’ironica rivista di letteratura e molto altro fondata e diretta da Giambattista Vicari dove pubblicò vari racconti, fu persino l’autore di una sceneggiatura per la Rai, negli anni ’60, che rimase nel cassetto e venne pubblicata solo anni dopo dalla rivista Sipario. Era un po’ troppo provocatoria per quei tempi, posto che raccontava di un gioco televisivo in cui si decide vita o morte dei condannati partecipanti in base alla popolarità acquisita nel corso della trasmissione. Un reality televisivo virato al noir.
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Le venti giornate di Torino sono state riscoperte dopo una lunga vita clandestina, e sono tornate in Italia attraverso un viaggio nel mondo anglosassone. Il libro fu infatti segnalato da un amico italiano, ormai avanti negli anni Duemila, a uno scrittore australiano che se ne innamorò, lo tradusse, riuscì a farlo pubblicare in inglese nel 2017, e con un certo successo, dall’americana Norton (una casa editrice che di italiani fino ad allora aveva proposto solo Primo Levi).
Nello stesso anno arrivò di conseguenza la nuova edizione italiana per Frassinelli, con prefazione di Giovanni Arduino e un suo saggio in e-book sull’autore, sulla sua vita disperata, sull’abisso degli psicofarmaci: un vero “maledetto”, “mezzo barbone, tutto matto, alcolizzato e distrutto dall’Halcion”, come raccontò al critico la figlia Corallina.
De Maria e il suo fantasma erano finalmente entrati nella storia della letteratura, in quella particolare zona di ombre e di buio che è il fantastico nella versione più demoniaca, quello per intenderci di un Lovecraft cui l’autore fu debitamente avvicinato. Ed erano destinati a tornare ancora.
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L’edizione di Neri Pozza non è commentata, ed è forse meglio così perché lo si può apprezzare nella sua nudità. È la storia di un’inchiesta privatissima, ad anni di distanza da una misteriosa serie di omicidi avvenuti a Torino nelle vie notturne popolate da cittadini che vagavano insonni e tuttavia come sonnambuli. Qualcuno li afferrava per le caviglie e li scagliava violentemente contro qualcosa, muri, pali, ostacoli, mulinandoli come clave. Intanto, al Cottolengo, era stata raccolta una grande biblioteca di manoscritti, ottenuti incoraggiando la gente a confessare i propri desideri o i sentimenti più nascosti e impresentabili. Nel 2017 si parlò naturalmente, è ormai un obbligo giornalistico, di una sorta di profetica visione del futuro, come se l’autore avesse anticipato Facebook, ma la biblioteca sembra davvero altra cosa, guarda semmai alle fiabe nere del romanticismo, agli Hoffman o ai Poe, perché è basata sull’idea di confessione, e di una confessione cui non si riesce a resistere (c’è almeno un racconto di Poe a questo proposito, Il cuore rivelatore, che potrebbe costituirne persino il palinsesto).
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Gli autori dei manoscritti inoltre, a differenza di ciò che accade oggi nei social, possono essere identificati (pagando una piccola cifra ai bibliotecari del Cottolengo): ed ecco che nelle notti di Torino, oltre agli insonni, si aggirano così – anche di giorno – personaggi più o meno misteriosi dediti a pedinarsi, incontrarsi in segreto, scambiare messaggi e controllarsi a vicenda per scopi incomprensibili. Va da sé che le indagini della polizia non arrivano a nulla, e finita la crisi, passate le venti giornate, sostanzialmente non se ne parla più. Solo un impiegato senza nome decide, appunto tempo dopo, di trovare informazioni per scriverne un libro. Incontra personaggi spaventati e reticenti, compresa una suora del Cottolengo, bianca come un fantasma, dolce e nello stesso tempo minacciosa, non combina un bel nulla ma capisce di essere braccato da qualche oscura entità e accetta il consiglio di sparire. Ma l’aereo che dovrebbe portarlo a Venezia atterra in un deserto, e qui la vicenda si scioglie, non nel senso di una conclusione logica ma proprio nel ribadire la sua totale, feroce incomprensibilità.
Prima di partire il protagonista narratore ha assistito però a uno spettacolo di marionette, dove due personaggi storici di Torino se le danno di santa ragione usando come armi altri burattini, diciamo secondari: e questa è in fondo la sola illuminazione che gli è concessa, capisce che non c’è possibilità di razionalizzare, l’orrore è inscalfibile. Non ha motivazioni, non si riesce a spiegarlo, lo si può solo contemplare ed eventualmente subire.
C’è però una traccia, extratestuale: De Maria scriveva nei primi anni di piombo, in una città incupita e minacciata, dove nel ’76 si aprì il grande processo al nucleo storico delle Br, condizionato dalla paura che spingeva i giurati popolari a non accettare l’incarico e dalle minacce ai legali.
Nel ‘77 venne assassinato il presidente dell’ordine degli avvocati, Fulvio Croce, ma già negli anni precedenti il peso di ignoti pericoli in cui poteva incorrere chiunque sena sapere perché era più che palpabile. La città si era chiusa su se stessa, le notti erano davvero buie e desolate. Il romanzo coglie bene questo momento, in qualche modo ne è la metafora o l’apologo. È un documento sorprendente e misterioso. Che poi sia o meno un “capolavoro sconosciuto” – ma non nel senso di Balzac e del suo celeberrimo racconto omonimo sulla follia di un grande pittore – è tutto sommato irrilevante.
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