“Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia”, a cura di Maria Teresa Carbone, è una raccolta di dialoghi che vede protagonisti sedici autori (tra cui Helena Janeczek, Giulio Mozzi, Laura Pugno ed Emanuele Trevi), sul loro rapporto con Instagram e la fotografia

Già a partire dalla metà degli anni Ottanta, Vilém Flusser si interrogava sugli sconvolgimenti epistemici comportati dalla fotografia digitale, preconizzando la scomparsa dei confini fra originale e copia, realtà e simulazione, verità e menzogna, a partire dal diverso significato e funzionamento ontologico dell’immagine digitale; non diversamente, da queste stesse premesse, partiva un saggio del 1992 molto influente di W.J. Mitchell (da non confondere con il quasi omonimo teorizzatore del pictorial turn): The Reconfigured Eye, aprendo una strada di riflessioni molto battuta che arrivava a ipotizzare, con la nostra consueta tendenza a iscrivere i fatti culturali del presente in un orizzonte di posterità e esaurimento, un “dopo la fotografia” (così si intitola un libro di Richtin del 2012), un dopo in cui l’immagine fotografica, per dirla con le parole di Ferdinando Scianna, perderebbe “il suo prestigio di documento, di traccia del reale” e in cui “finiranno col cambiare la ragione e il senso stesso del fotografare” (sono parole contenute nel volume del 2009 La geometria e la passione).

E tuttavia, le ricerche più convincenti intorno a quella che più recentemente Joan Fontcuberta ha chiamato “postfotografia” pongono sempre più l’accento non tanto sulla differenza di “essenza”, fra la fotografia digitale e quella analogica, quanto, per chiamare in causa un altro importante testo, sugli “usi sociali” (così Bourdieu) della fotografia, come dimostra quel diluvio di immagini (dall’opera di Erick Kessles Photography in Abundance, 2011) posto sulla copertina della Furia delle immagini di Fontcuberta.

Un diluvio che è difficile quantificare, ma basti dire che, secondo i dati raccolti da Keypoint Intelligence, nel 2020 sono state scattate (e condivise) 1430 miliardi di foto (vale la pena leggere il numero per intero: 1,436,300,000,000) e questo, a proposito di usi sociali, in una certa misura fa la differenza, perché non si tratta semplicemente di una moltiplicazione indifferenziata ed esponenziale, ma di un cambiamento proprio negli utilizzi delle immagini e che investono aree diverse dell’agire sociale – dalla sfera politica alla performance identitaria individuale fino alla sfera artistica e al nostro rapporto con le immagini.

copertina libro "che ci faccio qui"

È all’interno di questo panorama che si colloca Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia a cura di Maria Teresa Carbone (Italo Svevo Edizioni), una raccolta di dialoghi con sedici scrittori e scrittrici sul loro rapporto con Instagram e la fotografia (il qui del titolo è appunto il social network).

La domanda che raccoglie queste conversazioni, e che pure tradisce, quanto meno da parte della curatrice, una sorta di disagio o di stupore di presenza, è un invito a ragionare sul rapporto fra la postfotografia, i social network, l’autorialità e le pratica di scrittura.

Quello che colpisce è che nessuno fra gli/le intervistati utilizza Instagram come supporto integrato all’interno di un progetto artistico multimediale, foss’anche di semplice performance auto-finzionale esplicita (come può essere il caso di uno scrittore quale Tao Lin), ma semplicemente ci sono, fanno delle foto, le condividono, semmai la costruzione dei loro profili può rispondere ad esigenze più o meno estetiche, che possono più o meno consapevolmente incrociarsi con le proprie poetiche di scrittura, ma mai in maniera programmaticamente consapevole e progettata (ma, anzi, quasi sempre all’insegna di un rivendicato dilettantismo – con la significativa eccezione, naturalmente, di Sabrina Ragucci, l’unica fotografa professionale del gruppo).

Allora, non è tanto sul piano dell’indagine di una possibile poetica espansa e multimediale che si gioca l’indagine proposta da Carbone, quanto sul concetto di autorialità – che pure mai è espresso esplicitamente, ma spesso rimane sottotraccia – sui rapporti fra scrittura e fotografia e sugli usi sociali (in questo caso da social) della fotografia che ne fanno scrittori e scrittrici.

Al di là delle singole risposte, quel che è più interessante del volume è il panorama complessivo, a partire da alcune questioni che sembrano costanti, e che pure non ci avvertono tanto dell’uso che questi 16 scrittori e scrittrici fanno di Instagram (cosa che, in fondo, non interesserebbe poi molto a nessuno), ma piuttosto di una serie di temi e forme visive ricorrenti nei loro profili che dialogano con un certo ruolo dell’immagine nelle forme letterarie contemporanee – voglio dire, cioè, quanto delle loro risposte rispetto alla fotografia ci dice sul panorama della letteratura contemporanea.

A ben vedere, le immagini (i temi visuali) che emergono non sono poi molti: una forte attenzione a quello che Perec chiamava l’infraordinario: così, per esempio, Bortolotti, Mazzoni (“Vorrei rendere l’idea che gli oggetti di cui è fatto il nostro habitat prescindono dalla nostra presenza e ci ignorano; vorrei fissarli così come appaiono mentre noi non li vediamo, mentre noi non esistiamo”), Giulio Mozzi (“forse è questo che, vagamente, incertamente, cerco nella fotografia: l’insignificanza”), o ancora Pecoraro (“Cercavo di riprodurre l’assolutamente insignificante. Ero, e sono tuttora, circondato dal banale ordinario, come quasi tutti noi”); l’attenzione agli spazi vuoti, agli edifici industriali, o alle zone di provincia; il senso della registrazione interminabile (Tommaso di Dio parla di una enorme caverna di Lascaux “di cui nessuno potrà mai farsi una mappa complessiva”); o ancora l’immagine come forma di annotazione (Carbé), di diario (Falco e Ragucci parlano di “diario in differita”, Sarchi di “archivio”, Nativo di “taccuino” e così via); il proprio corpo, il proprio viso spettralizzato in un selfie fatto su una superficie riflettente e in una certa misura opacizzante, o il proprio viso (il proprio selfie) spettralizzato dal riflesso distorto di quello che lo sguardo vede.

L’infraordinario che si tramuta in feticcio, l’archivio (anch’esso spesso feticizzato: come avverte Mazzoni da questo punto di vista “gli album di famiglia e la pornografia si assomigliano”), la spettralità dei luoghi e dei corpi, incistati in un racconto autoritratto, sono probabilmente le costanti principali che delineano il campo delle produzioni iconotestuali contemporanee. Ed è particolarmente rappresentativo che questo panorama sia inavvertitamente delineato da un gruppo che solamente in minima parte o solo tangenzialmente si è occupato di fototestualità (con l’ovvia eccezione della coppia Falco-Ragucci).

A dispetto di molte delle dichiarazioni sui rapporti fra la propria scrittura e l’immagine – considerati talvolta in senso collaborativo o, tutt’all’opposto, come conflittualità, “guerra fredda”, così Mazzoni (o Emanuele Trevi: “la scrittura è il contrario della fotografia”), o, ancora, possibilità di scarto e individuazione di una possibilità espressiva.

Di “lotta” parla Ragucci, giocata sull’opacità, ma di una opacità costruttiva, (basti pensare all’Alfabeto della distruzione, il lavoro visivo contenuto in Flashover), di commistione parla Carmen Gallo, descrivendo il suo interesse per un tipo di “scrittura ibrida, che intreccia immagini, suggestioni letterarie e riflessioni saggistiche” – com’è il suo Cartoline (stravaganti) dalla Terra Devastata pubblicato su Antinomie e il cui modello, nonché più felice esempio italiano, è con ogni evidenza La vita dei dettagli di Antonella Anedda. A dispetto di molte di queste dichiarazioni, come detto, quello che emerge complessivamente è l’intercettazione delle principali tendenze (talvolta delle più felici, altre delle più alla moda) di interrelazione, scontro o dialogo che sia, fra parola e immagine fotografica nella produzione letterarie recenti, una intercettazione, tuttavia, obliqua, quasi inconsapevole, che prende forma dalle autorappresentazioni che questi sedici scrittori e scrittrici fanno di se stessi, del proprio stare – anzi fare – su (o “in”, come preferisce Giulio Mozzi), ma anche attraverso Instagram.

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