Han Kang, vincitrice del Nobel per la Letteratura 2024, è riconosciuta come una delle voci più straordinarie della letteratura contemporanea. La sua scrittura, capace di fondere prosa e poesia in un equilibrio perfetto, non si limita a raccontare la Corea: illumina le fragilità umane, le nostre perdite e quel bisogno di speranza che continua a tenerci vivi. Con opere come “La vegetariana” e “Non dico addio”, l’autrice affronta il trauma storico e la vulnerabilità dell’animo umano in una narrazione che sfida ogni convenzione, trasportandoci in un incantato e inquietante delirio notturno. I suoi testi, ricchi di immagini potenti e suggestive, offrono un viaggio tra sogno e incubo, dove la realtà appare come un luogo da cui fuggire. La sua ribellione, però, è unica: silenziosa e sottrattiva, un gesto che mira a recuperare l’invisibile, ciò che risiede nel profondo di noi stessi e che spesso sfugge alla nostra percezione…

È arrivata da noi con La vegetariana, romanzo “sconcertante” che le è valso il Man International Booker Prize, portato in Italia da Adelphi grazie alla traduzione di Lia Iovenetti. L’abbiamo conosciuta attraverso un testo lirico, dolce e perturbante, che si apriva con un sogno e lasciava intravedere ciò che le sue opere successive avrebbero confermato: una scrittrice in grado di accarezzare l’anima con la leggerezza di un soffio di vento e, nello stesso istante, di squarciarla con la violenza di una tempesta.

Han Kang, la scrittrice sudcoreana appena insignita del Nobel per la Letteratura, è protagonista nelle classifiche di vendita con i suoi libri, conquistando lettori e lettrici di tutto il mondo grazie a una prosa poetica, intensa e capace di affrontare con rara profondità i traumi storici e la fragilità dell’animo umano, come espresso dall’Accademia Svedese nelle motivazioni del premio.

Da poco Han Kang è tornata in libreria con Non dico addio, il quinto titolo pubblicato in Italia, un’opera che si addentra nei massacri di Jeju tra il 1948 e il 1950, ma che, nelle parole dell’autrice, è anche “la storia di un amore immenso ed estremo” e una “candela accesa negli abissi dell’anima umana“.

 Non dico addio han kang

Nata nel 1970 a Gwangju, città segnata dalla sanguinosa rivolta del 1980, Han Kang ha respirato sin dall’infanzia il peso della violenza e della storia, esperienze che hanno lasciato un’impronta indelebile nella sua scrittura.

Trasferitasi a Seul a soli nove anni, visse in prima persona le tensioni politiche che avrebbero plasmato il suo immaginario e la sua esistenza: “Come possono gli esseri umani essere capaci di brutalità indicibili, ma anche di gesti sublimi?“. Questo interrogativo, che la scrittrice stessa ha definito un enigma irrisolvibile, attraversa tutta la sua produzione letteraria, spingendola a esplorare i confini dell’umano con una sensibilità che non teme di toccare l’orrore né di illuminare la bellezza.

Le sue opere, profondamente radicate nella cultura coreana, sono un ponte tra mondi lontani (elemento che le rende sicuramente ancora più preziose e affascinanti per le lettrici e i lettori italiani). Attraverso dettagli vividi – il sapore del kimchi, il silenzio tagliente dei cieli d’inverno, il rumore del vento tra le magnolie – l’autrice ci conduce in un viaggio onirico, che si dissolve e si ricompone incessantemente, sciogliendosi in pensieri e immagini sospesi tra sogno e incubo.

È un movimento costante tra un dentro e un fuori, che rende la sua prosa ora estremamente concreta, ora inafferrabile. Violenta e sanguigna, ma anche eterea e sfuggente. Essenziale e marginale – in un senso quasi ferrantiano, di una smarginatura che supera i confini delle cose, aprendole e lasciando emergere ciò che realmente sono. Deforma e scolora, ingloba e inghiotte la luce, trascinandoci in un flusso che sfida ogni convenzione narrativa. Eppure, quel buio è lacerato da un bagliore – come quando si sale su un palco immerso nell’oscurità e una luce improvvisa acceca, cancellando ogni contorno.

La vegetariana han kang

Non c’è mai nulla di definitivo nella scrittura di Kang: come in Non dico addio, dove i tronchi neri nella neve, che la protagonista sogna in apertura del romanzo, sono al tempo stesso simboli di morte e di resurrezione, il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti è un’illusione, e il lettore si ritrova in una narrazione che si spezza e si ricompone, lasciandolo smarrito e ipnotizzato.

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Quella dei fiocchi che fluttuano come cristalli su uno scenario di alberi scuri di Non dico addio, è un’immagine che richiama il candore di The white book (uscito nel 2016 e non ancora pubblicato in Italia), singolare opera autobiografica fatta di spazi, aria e silenzi, che sembra essere tra i testi più frammentari e sfuggenti dell’autrice sudcoreana. Anche in quest’ultimo titolo, ritroviamo ombre di alberi stagliarsi su un muro, eco di un immaginario selvatico e quasi fiabesco, capace di incantare e di scuotere, come una storia del terrore che tiene svegli la notte. Non è un caso, del resto, che l’insonnia sia un tema ricorrente nei romanzi di Kang. È proprio questa condizione di delirio notturno che sembra condurre i suoi personaggi – e chi legge – a vivere sulla soglia, in uno stato in cui l’impercettibile diventa l’unica realtà possibile.

L’ora di greco han kang

Anche perché la realtà che abbiamo davanti agli occhi è un luogo da cui fuggire. La Storia è spesso protagonista nei romanzi di Kang nei suoi episodi più atroci: dalla già citata insurrezione di Jeju narrata in Non dico addio – con oltre 30.000 vittime civili – alla repressione della rivolta popolare contro la dittatura di Chun Doo-hwan e il massacro di Gwangju nel maggio 1980, descritto in Atti umani. Tuttavia, non bisogna leggere le sue opere come pura cronaca o denuncia, ma come l’eco di un trauma collettivo che non si estingue con la morte delle vittime, ma si riverbera per generazioni.

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Atti umani han kang

Che fare, quindi, di fronte a quest’orrore? Non abbassare lo sguardo, ma rispondere con una forma di resistenza: una letteratura che sceglie di svanire, come se proprio questo fosse, in ultima analisi, l’atto umano più potente possibile. Ripartire da qualcosa di puro, qualcosa che probabilmente non appartiene alla nostra realtà terrena, ma che deve essere perseguito, anche soltanto attraverso le parole. Qualcosa di invisibile, che non ha voce. Quasi una vita prima della vita – quella che tutti abbiamo vissuto nel grembo materno e che riecheggia in noi come un richiamo lontano, che parla di abissi marini, di ciò che siamo e a cui apparteniamo.

In Han Kang, infatti, la ribellione è quasi sempre un atto di sottrazione, discreto ma radicale. Le sue protagoniste sfidano le convenzioni con gesti silenziosi: come Yeong-hye in La vegetariana, che rinuncia alla carne in un percorso che la conduce all’annullamento fisico, o la donna senza nome di L’ora di greco, che abbandona il linguaggio per cercare rifugio in una lingua antica, simbolo di purezza perduta.

Questi gesti, tanto intimi quanto universali, risuonano nella scelta dell’autrice di rifiutare i festeggiamenti per il Nobel, giudicandoli inadeguati in un mondo ancora segnato dalla violenza. È una decisione coerente con la sua poetica: usare la propria voce per ridarla a ciò che davvero importa, illuminando le fragilità umane, le nostre perdite e quel bisogno di speranza che, nonostante tutto, ci tiene ancora vivi.

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