La premessa di “Ti Seguo”, romanzo d’esordio di Sheena Patel, ricorda il film del 2017 “Ingrid goes west”, storia di una giovane ossessionata dalla sua influencer preferita. Ma nel raccontare un triangolo irrisolvibile, le pagine di Patel si frammentano in altre domande, in accuse formulate da una voce che non ha nessuna intenzione di essere accomodante…

La premessa di Ti Seguo, romanzo d’esordio di Sheena Patel (Atlantide, traduzione di Clara Nubile) ricorda il film del 2017, Ingrid goes west. La Ingrid del titolo, Aubrey Plaza, è così ossessionata dalla perfetta vita Instagram dell’influencer Taylor (Elizabeth Olsen) da trasferirsi a Los Angeles e imitarla fino a riuscire a entrare nella sua cerchia di amicizie.

Il film esplora le tematiche della salute mentale e dei filtri che i social appongono alle nostre esistenze. Quello che ci sembra più avvicinabile allo stesso tempo è terribilmente distorto, e non accessibile quanto appare: sono questioni che affiorano tra le pagine di Patel, ma da lì si frammentano in altre domande, in accuse formulate da una voce che non ha nessuna intenzione di essere accomodante.

Nel romanzo di Sheena Patel c’è una donna, la donna da cui la voce narrante, per l’appunto, è ossessionata, che potrebbe benissimo essere il personaggio di Elizabeth Olsen.

Il suo profilo è esteticamente piacevole, non c’è un’ombra che si allunga sulla bella casa a Marfa; è figlia di un uomo celebre, ha ricevuto la migliore delle educazioni, i suoi follower le vogliono bene. Ma la voce narrante sa che c’è un dolore nascosto: una relazione clandestina con lo stesso uomo che la protagonista frequenta, un uomo che non è pienamente disponibile per nessuna delle due.

La donna da cui sono ossessionata, l’uomo con cui voglio stare: sono i due poli che si contengono l’attenzione della voce narrante, una giovane di origini indiane, che vive nei sobborghi londinesi, si barcamena tra un lavoro a chiamata e una storia di lungo corso con un fidanzato che non la soddisfa, e la cui vita è stravolta dall’ingresso di queste due figure lontanissime per età, classe sociale, colore della pelle.

Il gioco di potere che l’uomo instaura è evidente, e la voce narrante ci si abbandona con consapevolezza, è partecipante volontaria: cosa succede quando quella che dovrebbe essere una vittima resta nella situazione, ne soffre, ma non accetta il ruolo di vittima? È possibile che in qualche modo l’oppressione ne esca depotenziata, o si crea una complicità?

Patel, che arriva dalla poesia – ha fondato, insieme ad altre tre autrici amiche, il collettivo 4 Brown Girls Who Write – e lavora nella tv e nel cinema come assistente alla regia, ha mutuato dalla sua esperienza la capacità di frammentare la narrazione, rimontandola seguendo una cronologia interna che poco ha a che fare con la realtà dei fatti.

In questo modo, la vicenda è in un eterno presente, costretta a una ciclicità senza via d’uscita, dove il riscatto è secondario alla presa di coscienza dei meccanismi che la regolano. Del resto, non ci può essere il riscatto di una persona sola, dove i suoi contraltari hanno quella posizione proprio in virtù della loro individualità, del loro percorso unico verso una realizzazione di sé che è stato sostenuto fin dalla loro nascita da condizioni esterne irripetibili.

La ribellione della protagonista parte da sé: dall’essere sgradevole, opposta, arrabbiata. Dove la donna da cui è ossessionata seleziona con cura le angolazioni che la valorizzano, la voce narrante descrive la propria bocca che sbava, che digrigna, il suo volto che si contrae fino a una maschera. Di fronte a un modo di raccontarsi altrui pacato e beige, sceglie una scrittura che non pacifica; quasi vomita sulla pagina un malessere che non ha senso contraffare. L’alternativa sarebbe piegarsi all’estetica che è dettata dalle persone come l’altra: le persone bianche con la spunta blu.

Raccontare i social media in un romanzo è una sfida per ogni autore contemporaneo. Rimasticando il vecchio discorso di Foster Wallace, non è facile riconoscere l’acqua. Sheena Patel riesce però a evidenziarne gli aspetti più spietati.

Mette in luce la finta democraticità dei social, che sono riusciti a organizzarsi secondo una gerarchia, offrendo l’illusione di una luce puntata su chiunque per poi contribuire ad arricchire chi già ricco era, o tuttalpiù a generare nuove singole storie di successo, nuovi enfant prodige che dal nulla arrivano alla notorietà.

Nessuna delle due situazioni è una narrazione rivoluzionaria, ma è anzi molto ghiotta per lo sguardo bianco e capitalista. Lo spazio è sempre per l’individuo il cui successo è edificante, e anche quando i riflettori spettano a una persona nera, o appartenente alle altre minoranze, osserva Patel, questa deve adeguarsi al copione prestabilito, deve rassicurare chi la segue, far sapere che è lì grazie alla giustezza del sistema messo in piedi dalle persone bianche.

La donna da cui è ossessionata la voce narrante ha la possibilità di piegare il mondo intorno alle proprie esigenze, completamente cieca di fronte alle storie di violenza che hanno fatto sì che lei fosse proprio in quella posizione: costruendosi come personaggio da ammirare, costruisce anche la sua realtà, in cui può seppellirsi senza vergogna. Si circonda di oggetti in cui la sua personalità, curata ad arte, si riflette, oggetti che la voce narrante ammira senza poterseli permettere.

È quasi una versione grottesca e consumistica del paradosso della nave di Teseo – se si sostituiscono tutti i pezzi della nave che è marcita, a un certo punto sarà ancora la stessa nave? Possedere tutti gli oggetti a cui è affidata l’identità della donna da cui è ossessionata renderà la voce narrante la stessa persona, degna dell’amore dell’uomo con cui vuole stare?

L’esasperato individualismo di questa situazione rende impossibile ogni solidarietà femminile tra la voce narrante e la donna, e le altre donne che sono nella rete dell’uomo con cui lei vuole stare. Lui, impunito, attraversa le classi sociali, si prende quello che vuole: è la classica figura di chi sa tutte le parole giuste, e per questo non ha nulla da temere. Viene invitato a parlare in panel composti da sole donne, ma nel privato si permette di rinforzare la dinamica più vecchia del mondo. L’accesso a lui è l’accesso a un mondo altro per la protagonista: e le è alternativamente offerto e poi negato.

La sua posizione è quella dell’eterna fan – il titolo originale, è proprio I’m a fan: in attesa costante di un aggiornamento, un volto fossilizzato nell’atto dell’adulazione. La fan, quella figura vuota che pare riempirsi solo dell’oggetto della propria ammirazione, lo genera a sua volta. La voce narrante non è nemmeno per un secondo ingannata sul proprio ruolo in questo: non toglie legittimità al suo dolore, perché il suo cercare una propria soddisfazione individuale è inevitabile.

Sheena Patel, in un’intervista al Guardian, è stata molto diretta: la sua narratrice è complice nella violenza che la storia mette in scena. Viviamo immersi nel patriarcato e ne mutuiamo gli atteggiamenti anche quando ci crediamo al riparo in virtù del nostro genere, della nostra età, della nostra maggior consapevolezza.

La sua voce narrante è lucida, ipercontemporanea – alcuni titoli dei capitoli ricordano dei trend di TikTok, come “se fossi un verme mi ameresti comunque?” – ma nemmeno lei è del tutto immune: le sue scelte personali sono figlie del sistema in cui è immersa.

E più che edificanti storie di rivalsa, forse ci vuole anche una protagonista che non abbia nulla di rassicurante per scuoterci un po’.

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