“Morsi”, il nuovo romanzo di Marco Peano, si colloca in una costellazione, quella del racconto gotico, e ne abbraccia i temi a piene braccia: l’autore (editor di Einaudi, ndr) conosce perfettamente il racconto gotico che lambisce l’horror, il romanzo di formazione, il quadro degli anni Novanta che viene ricostruito minuziosamente. Parallelamente, semina la paura, l’incertezza, la scoperta e il dubbio dell’esistenza dei protagonisti ragazzini in più livelli della narrazione…

«I needed something – the distraction of another life – to alleviate fear.»
(Bret Easton Ellis, Lunar Park, Vintage)

Dopo la lettura di Morsi (Bompiani), il secondo libro di Marco Peano, si può andare da un capo all’altro di una ipotetica “enciclopedia dei morsi” per attraversare la letteratura e la cinematografia nel corso del Novecento.

Si potrebbe fare, infatti, questo esperimento: leggere il libro e, appena chiuso, scandire ad alta voce i primi due o tre temi o oggetti narrativi che vengono in mente. Le assonanze, senza pensarci troppo, senza ricorrere a pensieri fini, potrebbero essere un film visto da piccoli o da adulti, il primo romanzo che ha fatto paura, il primo racconto che ha tormentato il sonno, fino ad arrivare, probabilmente, a una recente serie tv.

Mi aspettano, ad esempio, Dracula di Bram Stroker, il primo horror che ho visto, il film di Francis Ford Coppola del 1992; quei libri collezionabili di Arnoldo Mondadori Editore con i finali alternativi, che erano definiti generalmente romanzi d’avventura e per ciascun lettore esisteva in effetti un grado di avventura sostenibile (c’erano anche i vampiri, ovviamente) e un finale possibile; la solitudine plumbea di Mary Katherine Blackwood, la protagonista di Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson, fino agli ultimi arrivati, i ragazzini di Stranger Things, una delle serie più di successo degli ultimi anni prodotta e distribuita da Netflix.

Si può proseguire come si vuole per comporre il proprio percorso in questa “enciclopedia dei morsi” e questi sono i racconti che la mia mente ha mandato a memoria, storie che hanno contesti di scrittura e produzione lontani, certamente differenti, ma hanno in comune un sentire, una linea narrativa immaginaria che abbraccia tre elementi sopra tutti gli altri: il potere del morso, il potere avventuroso dell’infanzia e ovviamente me come lettrice o spettatrice, a seconda.

morsi marco peano

Ripetendo l’esercizio, le suggestioni potrebbero essere ogni volta differenti, ma la certezza è che Morsi si colloca in una costellazione, quella del racconto gotico, e ne abbraccia i temi a piene braccia: Marco Peano conosce perfettamente il racconto gotico che lambisce l’horror, il romanzo di formazione, il quadro degli anni Novanta che viene ricostruito minuziosamente, attraverso dettagli che puntellano il racconto e ci gratificano nel profondo, perché ci fanno sentire parte integrante della storia e del suo mondo autoriale; parallelamente, l’autore semina la paura, l’incertezza, la scoperta e il dubbio dell’esistenza dei protagonisti ragazzini, Sonia e Matteo detto Teo, in più livelli della narrazione: questi, tutti insieme, ora mescolati ora sovrapposti, compongono la trama e lo stile senza fronzoli di Morsi.

I due personaggi principali sono costruiti secondo regole comuni, figli di una cultura e una geografia chiara, e in un momento della loro crescita critico, quello del passaggio fatidico dall’infanzia all’età adulta. Seguendoli, il racconto ha un andamento multi-corde, allenta la presa e la stringe, con un morso appunto, ci fa sprofondare e ci fa correre; pagina dopo pagina ci tiene dentro la storia, fino alla fine. I morsi che subiamo cominciano all’esterno, con la morsa del freddo in cui è avvolto il paesino, e poi proseguono con quelli interni – uno su tutti: Sonia è assillata dal pensiero del primo bacio e si chiede «come si fa a non mordere l’altro e a non essere morsi a propria volta?» – passando per la furia che impazza nel racconto e che ha nel mordere l’atto principale.

Il plot si svolge durante le vacanze di Natale del 1996 a Lanzo Torinese, un paese di montagna della provincia sommerso dalla neve, che ovatta i suoni e allontana le persone: “La casa era fuori dal centro abitato, nella strada che s’inerpicava verso le montagne. Lanzo Torinese […] era un paese di provincia simile a tanti altri delle valli di Lanzo. Possedeva molte caratteristiche del villaggio di alta montagna (in passato era stato luogo di villeggiatura) pur restandosene da sempre quieto ai piedi delle Alpi“.

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Sonia è la protagonista e si trova in quel paesino perché passa le vacanze a casa della nonna Ada, una donna severa, la guaritrice del paese, per alcuni una masca, “una figura della tradizione popolare”, lontano dai genitori ma vicina a Teo, il figlio dei Savant che abita con la famiglia in una cascina una strada più in su.

La trama scaturisce da un incidente che esplode a scuola, anche questo un luogo non casuale, il fulcro principale delle possibilità e degli ostacoli sociali e individuali di ogni ragazzino preadolescente nel 1996. Sono coinvolti una classe e un’insegnante: come ogni storia di paura che si rispetti il problema è sempre prossimo, si fa vedere mostruoso e accerchia un passo alla volta, un’ora alla volta, i protagonisti. Molto presto, Sonia e Teo si troveranno a risolvere le loro esistenze senza l’aiuto degli adulti, si interrogheranno sull’incidente, faranno capo all’ingegno e alle risorse dell’infanzia, le uniche possibilità che avranno per afferrare i primi lembi dell’età adulta: i giochi, gli zaini, la curiosità diventano strumenti, rifugi, superpoteri.

In Morsi la paura si fonde quindi con la formazione – e se crescere non è una cosa spaventosa cosa davvero lo è? –, Sonia ha la possibilità di mettere in discussione la famiglia, le origini, le porzioni di discorso dei grandi che si origliano da ragazzini, il rapporto con i genitori e con la nonna Ada, che rappresenta ciò che non si conosce e dunque attiva una delle peculiarità degli adulti stessi: il pregiudizio.

Da parte sua Teo, co-protagonista puntuale, fornirà a Sonia un supporto pratico, basato su espedienti infantili ma efficaci, su una comunione di intenti e sul latente bisogno di conoscersi. Se Sonia è la perfetta eroina che fa tifare, una ragazzina intelligente alla ricerca interiore delle armi migliori per affrontare il problema, Teo misura, punge la parte del lettore che non arriva a comprendere sino in fondo, ma è coraggiosa, sa trovare il modo di dare una mano.

Per la ragazzina c’è molto di più in ballo rispetto al suo amico: è lei che deve affinare la conoscenza, è lei che deve evolvere per prima, è lei infine che deve trovare il modo di andare avanti e dettare le regole per Teo (e forse non solo per lui); questi non può far altro che seguirla e noi con lui, provando ad aggiustarsi di conseguenza, facendosi scudo dei sentimenti umani e della leggerezza infantile.

Ecco che crescere significa due cose parzialmente diverse, per ciascuno di loro: lo sforzo di Sonia è più imponente, perché a lei tocca la resa dei conti, mentre quello di Teo è fallibile, come lo è l’essere umano che deve diventare: la sua tenacia è sia la linfa del viaggio, sia la sua debolezza, perché porta in luce la paura, la sofferenza, il pianto e ci rappresenta, però, nella complessità, senza rinunciare a contorni vivaci e teneri.

La nonna Ada, inolte, è il personaggio che tiene insieme il tempo del racconto e anche quello intimo di Sonia: è la sua dimensione più esoterica, ma soprattutto colei che conosce le sorti del racconto. Narra il principio di questa storia, il passato da cui non si può prescindere, e sa del futuro; collocata in un continuum evolutivo, sempre più archetipo man mano che la storia va avanti, riesce a sorprenderci sul finale, quando è chiara la spiegazione per cui Sonia deve mettere in discussione la sua famiglia, la sua parte più prossima e più intima. Al contempo, la nonna ha nella struttura del romanzo degli spazi condotti in autonomia, che parlano a qualcuno nella storia e di riflesso al lettore e mostrano una piccola storia nella storia, di carattere familiare, che mette l’accento su un altro aspetto di Morsi, circoscritto ma non per questo meno importante: il suo essere a tratti intimo, seguendo piccoli colpi di pennello che trovano nei capitoli-intermezzo un approfondimento.

La dimensione del tempo, quindi, è fondamentale: in quelle giornate di fine dicembre del 1996, in cui ogni cosa accade e la vita che scorre è connotata da oggetti di uso comune e da cibi citati con cura – la macchina fotografica in regalo con i numeri di Topolino, il succo di frutta Billy, il pacchetto di Tuc o di Tic Tac ci dicono esattamente il quando – il tempo della narrazione si affianca a quello atmosferico e a quello della crescita, lo spazio emotivo ed evolutivo per eccellenza.

Morsi ha un prima, che viene svelato pian piano, una causa scatenante del presente fatto di una eroina superlativa e un aiutante all’altezza, uno scenario affascinante e catartico, e una serie di ostacoli da superare, personaggi a contorno divertenti e vittime e, infine, ha un dopo, che addolcisce le sorti dei protagonisti e le rende più reali: il fine ultimo, il lettore lo sa fin dal principio, è l’età adulta, l’incantesimo che termina, il lume di candela attorno a cui si narra la storia di paura che si spegne. E attorno a quella fiammella, sempre più labile man mano che il romanzo si avvicina alla conclusione, stiamo attenti, impauriti, a tratti coraggiosi e cresciamo, ancora una volta.

 

 

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