Dall’infanzia senza radici, passando per il kung fu, la detenzione, la depressione e la salvezza degli amici: la penna di Massimo Pericolo non risparmia nulla, né nella musica né nel suo primo libro, intitolato “Il Signore del Bosco”. ilLibraio.it ha intervistato l’autore e rapper di Brebbia, in provincia di Varese, per parlare della nascita di questo volume, del suo rapporto con la provincia, degli artisti a cui si ispira e della sua “corazza fragile”: “Per quanto possa essere forte la nostra personalità, ognuno di noi si costruisce uno scudo per sopravvivere meglio ed essere danneggiato un po’ meno”…

Il signore del bosco è firmato da Massimo Pericolo, anche se l’autore segnalato in copertina potrebbe essere semplicemente Alessandro Vanetti (classe 1992), nome all’anagrafe del rapper di Brebbia, un piccolo comune in provincia di Varese. O anche solo Vane, il soprannome con cui viene chiamato dagli amici, dal suo staff e anche dai fan, da sempre affezionati alla sua storia.

Nel libro, il personaggio si mette da parte per poter raccontare senza filtri non solo la genesi di un artista che ha sfidato il rap italiano diventando un’icona popolare da milioni di views e ascolti, ma anche le vicissitudini e i tormenti di un ragazzo che resta a galla a stento.

Dall’infanzia senza radici al seguito della madre, passando per il kung fu, lo spaccio e l’operazione di polizia Scialla Semper” (diventato il titolo del suo primo album) che l’ha condotto in detenzione per due anni, infatti, la penna di Massimo Pericolo non risparmia nulla, né su carta né musica.

Il modo in cui è arrivato ad “avere una vita decente”, come canta nella hit Sette miliardi che lo ha lanciato nel 2018, lo spiega nel dettaglio in questo volume fotografico pubblicato per Rizzoli, un progetto dello staff del tour del 2019, inizialmente nato come una fanzine di foto, che poi ha incontrato la fortuita proposta dell’editore: “I vari elementi andavano collegati tra di loro, non mi andava più di tralasciare dei particolari e quindi ho cercato di raccontare tutta la mia storia in ordine. Questo è uno dei motivi per cui ho scritto il libro: essere capito meglio”.

L’autore ha raccontato al ilLibraio.it gli artisti a cui si è ispirato per scrivere il libro, il suo rapporto con la depressione e con la provincia ma, soprattutto, quella che lui stesso definisce una “corazza fragile“…

massimo pericolo il signore del bosco

La sua voce autentica, nel libro, si percepisce forte e chiara. Per chi fa rap è sempre importante raccontare il proprio vissuto, lei in particolare perché ha scelto di farlo attraverso Il signore del bosco?
“Il motivo per cui l’ho fatto attraverso un libro non è diverso dal motivo per cui scrivo in generale. Tutti abbiamo qualche bisogno egoista di affermazione, e il mio è sempre stato raccontare e scrivere di me. Il punto è quello: l’espressione di sé. Io ho trovato la mia forma attraverso la scrittura e l’ho usata”.

Aveva mai scritto qualcosa che non fossero canzoni, prima d’ora?
“Mi è capitato una volta sola, escludendo le lettere che scrivevo nel periodo di reclusione. Si tratta di un racconto che non ha mai letto nessuno: parte dalla fine e arriva all’inizio, è un testo un po’ strano… Però sì, ecco, mi era già capitato di pensare alla scrittura al di là delle canzoni”.

E com’è stato cimentarsi con la scrittura di un libro vero e proprio?
“È stato difficile… Io sono un perfezionista, perciò qualsiasi cosa a cui mi dedico diventa difficile. Volendo fare le cose per bene, e raccontando cose delicate ed emotivamente pesanti, cimentarmi con la scrittura non è stato così semplice”.

Difatti ne Il signore del bosco parla apertamente di ansia, depressione e disturbi ossessivo-compulsivi in modo più esplicito di quanto non faccia in musica, esponendo le sue vulnerabilità.
“Per quanto possa essere forte (o meglio dominante) la nostra personalità, ognuno di noi si costruisce uno scudo per sopravvivere meglio ed essere danneggiato un po’ meno. La musica, in questo senso, è il mio scudo. E di conseguenza non rappresenta tutto ciò che sono realmente. Nella mia intimità più profonda c’è stata la depressione, e una tristezza che ha inquinato il mio vissuto. Se sono arrivato fin qui, però, è proprio perché mi sono costruito questa specie di corazza fragile, che entra in funzione in base alle circostanze”.

Forse allora la scelta di un genere musicale come il rap non è casuale…
“Vedo un po’ come un pregiudizio il fatto che il rap non sia considerato una musica per deboli: la maggior parte degli artisti confermerà pure questa idea, ma non è il mio caso e non penso sia così per tutti. Io stesso sarei capace di essere perennemente debole e depresso, solo che non posso permettermelo. Nelle mie canzoni c’è quindi la stessa fragilità di cui parlo nel libro, anche se ne Il signore del bosco parlo di me stesso al 100%, senza veli”.

Nell’opera, oltre alla sua voce, ne compaiono anche tante altre, attraverso gli stralci e i biglietti di suoi collaboratori e amici. A cosa si deve questa pluralità?
“Si deve al fatto che il loro lavoro ha contato tanto per me, lavoro inteso anche come disponibilità ricevuta fin dall’inizio, per registrare le mie prime canzoni o i primi video. Io non avevo mezzi per pagare e loro hanno fatto tutto in modo gratuito. Anche quando poi è diventato un lavoro vero e proprio, la loro disponibilità è rimasta invariata: alla base c’è fra noi un’amicizia che dura da anni, un’amicizia sincera”.

Nel libro, più ancora che i rapper, lei cita diverse letture e titoli che forse chi la segue non si aspetterebbe di sentirle nominare. A chi si ispira, di solito, quando scrive?
“Sicuramente, quando scrivo canzoni, mi ispiro ad altri artisti del panorama musicale. Nel libro, invece, dovendo parlare della mia vita, mi sono ispirato al modo di vivere, come anche alla filosofia, di altri autori, fra i quali per esempio il Marchese de Sade. Alcune libri sono arrivati fino a me in modo casuale: penso a un amico che ha studiato Lettere –  ora è disoccupato – e che mi ha sempre consigliato delle letture, passandomi i testi che leggeva lui all’università”.

Uno dei grandi temi che tratta di solito riguarda il rapporto con la provincia: come mai?
“Non saprei spiegarlo. Innanzitutto la provincia è un po’ il mio posto, perché io sono nato lì e cresciuto lì. Per qualcun altro potrebbe essere una città, per un altro ancora la montagna, o il mare… Probabilmente ciò che ti dà il posto da cui provieni è, a prescindere, il senso di appartenenza a qualcosa. Dopodiché, più tempo passi lì, più inizi a notarne gli aspetti positivi, così da crederti davvero diverso e speciale. Il punto è che succede a tutti, e che quindi nessuno alla fine è migliore degli altri. Però è una sensazione utile per l’autostima, e che poi si riflette in quello di cui si parla nella vita”.

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