Gli elementi del romanzo beat ci sono tutti: le comuni, i viaggi, la macchina da scrivere, il sesso, e soprattutto lei: la droga. Con “Materia prima” di Jörg Fauser, romanzo brulicante di vita e di passione, la casa editrice L’Orma ci restituisce la testimonianza di un’era che si credeva confinata a un panorama altro, tanto più preziosa perché affidata a una prospettiva nuova e a uno sfondo diverso: l’Europa…

Di cosa parliamo quando parliamo di beat generation? La risposta è quasi banale: Jack Kerouac, per cominciare dalle basi; ma anche Allen Ginsberg, Norman Mailer e, inevitabilmente, William Burroughs. Parliamo, insomma, di una fase storica ben determinata, quella che comincia negli anni ’50 e riversa la sua eco fino al 1968; ma anche, a giudicare dalla comune nazionalità degli autori sopra citati, di un’area geografica altrettanto delimitata: gli Stati Uniti.

Eppure in letteratura, si sa, i confini non sono mai così netti: le influenze si espandono, germogliano, gli epigoni si dimenticano; tuttavia esistono, e talvolta riemergono. Con Materia prima di Jörg Fauser la casa editrice L’Orma ci restituisce la testimonianza di un’era che si credeva confinata a un panorama altro, tanto più preziosa perché affidata a una prospettiva nuova e a uno sfondo diverso: l’Europa.

JÖRG FAUSER, Materia prima

Gli elementi del romanzo beat ci sono tutti:

«Sul comodino c’era una pallina di oppio. Tutt’intorno le urla delle puttane. Voglia di scopare zero. Mi sdraiavo e aprivo il taccuino al capitolo a cui stavo lavorando. Inchiostro fresco nel radiograph. Un nuovo imbroglio. Un nuovo quadro, un nuovo capitolo. Com’è che diceva Faulkner? “Rapinerei mia nonna, se mi servisse a scrivere.” […]
Cicatrici vecchie e nuove, croste. L’oppio e il Nembutal ti devastano le vene. Non portavo calzini, le scarpe avevano le suole bucate e mi andavano strette di un numero. I pantaloni, una volta verdi, ormai erano decisamente scoloriti, le rifiniture si sfilacciavano. Le camicie si potevano avere per un paio di lire, ma quando ci si abituava a una era difficile separarsene. Proprio come era difficile separarsi da Istanbul, dal buco in cui ci si era sistemati belli comodi con le cicatrici e l’apatia e il radiograph e la vista sul mare. Finché dura voglio rimanere in questo buco. Tanto la vita non aveva senso comunque».

Le comuni, i viaggi, la macchina da scrivere, il sesso, e soprattutto lei: la droga. Il protagonista Harry Gelb è un giovane scrittore che vive su di sé la frustrazione di voler rivoluzionare la cultura quando «tutti i libri buoni erano già stati scritti» e l’influenza dei grandi maestri si fa imprescindibile. Tra Istanbul e Francoforte, al fianco di compagni di avventure più malridotti di lui, Gelb si barcamena tra i lavori più insoliti e le relazioni più intense, ma sempre imbevuto «della spietata filosofia dell’oppio: se hai qualcosa di tuo ti verrà tolto, se non hai nulla morirai».

Scrivano, aiuto vigilante, magazziniere di elettrodomestici, Gelb ha una sola divinità, l’allucinazione, che trova l’apice della sua espressione in un contesto come quello della comune («Quella notte ci facemmo tutti un trip, e io, in un ambiente del genere, avevo la sensazione di essere più vicino al mondo della letteratura»). A supportarla, un’unica arma: la macchina da scrivere («Avevo sempre avuto la sensazione di dovermi difendere dal mondo. […] E lì sei avvantaggiato, mi dicevo, se rimani fedele a quello che hai visto»).

Il parallelismo tra creazione e delirio è consapevole e costante: se «la droga distrugge ogni individualità», qualsiasi trama convenzionale non ha senso di esistere, così come il rispetto della lingua e della sintassi. E se l’editoria sembra essere un modo chiuso costruito solo per arricchire le poste a spese degli aspiranti scrittori e dei loro manoscritti eternamente rifiutati, l’industria culturale è in continuo fermento: se non sono i romanzi, saranno i giornali; se i giornali falliscono, il cinema rimane «l’attività più promettente».

Non importa come, non importa dove: persino una città i cui artisti mancano di «sensibilità per la birra» come Vienna può andare bene. Ciò che conta, per uno scrittore, è «allenarsi a sopravvivere», vedere sbocciare tra una dose e l’altra i miti dell’era moderna, coltivarli ribellandosi alla guerra quotidiana del lavoro.

«Voglio dire, che vuoi fare dopo?»
«Il dopo non esiste più.»
«Così, di punto in bianco?»
«Il dopo è abolito. C’è soltanto l’adesso.»
«E fra dieci anni?»
«Fra dieci anni è ancora adesso.»
«Vuoi dire che il tempo non passa?»

Ed è proprio questa vocazione estrema alla scrittura e all’autodistruzione, le eterne due facce della stessa medaglia, che fa di Materia prima un romanzo brulicante di vita e di passione, animato da una fede nelle potenzialità della cultura come strumento di trasformazione individuale e sociale pur nella coscienza del suo fallimento.

Tra autobiografia e autoironia – Fauser stesso, prima di quella morte assurda che lo colse nel 1987, scrisse sceneggiature e collaborò con giornali e riviste – l’autore tedesco rende omaggio al potere dell’ispirazione, indotta o meno dagli stupefacenti. Poco importa se la società ottusa risponde con porte sbattute e fronti sul marciapiede: c’è sempre quel «filo d’erba che spunta in una crepa del cemento».

 

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