“Più di tutto, più del monumento letterario che per sempre ‘Memorie di Adriano’ costituirà nella storia universale, a me ha straziato l’amore. L’amore bellissimo, altissimo, fino cioè di grana fina, raffinato, l’amore omosessuale che è ogni amore”. In occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo, “La Fortuna”, Valeria Parrella su ilLibraio.it rilegge “Memorie di Adriano”, capolavoro del 1951 della scrittrice francese Marguerite Yourcenar

Di Marguerite Yourcenaur avevo letto Fuochi, ma non mi ero mai accostata a Memorie di Adriano, mi spaventava un po’. Poi succede che da ragazzi si leggano tantissimi libri, che essi vengano divorati, che siano ristoro, conforto, formazione, compagnia, e tutte le cose che fanno un ragazzo in divenire, ci si fa pance piene di francesi e russi, e greci e poi si vada scartando da lì.

Ecco io ero andata scartando dai greci e mi ero trovata con Fuochi che è la storia dei fuochi sacri dell’amore, consumati dalle grandi personagge, per bocca di Yourcenaur, e avevo letto, sempre partendo da lì, Anna soror, che è il modo con cui Didone regina si rivolge a sua sorella dopo l’abbandono di Enea.

Poi, dopo quel tempo, sono passati vent’anni in cui ho letto altro e su Yourcenaur non ci sono mai tornata.

Le memorie di Adriano

Finchè un giorno, prima della pandemia, era l’ottava o nona edizione di Un’altra galassia, a Napoli, Annalena Benini viene invitata a tenere una seduta spiritica su Marguerite, cioè una sua rievocazione d’autore.

Resto appesa alle sue parole, Marguerite, come in ogni seduta spiritica riuscita, appare: e io oramai quarantenne mi compro Memorie di Adriano (su un motore di ricerca c’era la recensione più esilarante che abbia mai trovato su un romanzo, fatta da non so quale utente, essa recitava “troppo incentrato sul protagonista”).

Avevo studiato lettere classiche all’università, la vita di Adriano mi era chiara, Svetonio stava ancora in me e pure la monetazione dell’età argentea, non ho avuto problemi di esegesi.

Ho letto e studiato quel romanzo come si fa con i classici: annotando a margine e costruendo un piccolo glossario personale alla fine, e sottolineando, come se poi uno davvero tornasse sui suoi passi… Quello che ne ricordo è che è piombata fortissima su di me la certezza che Adriano fosse la scrittrice stessa, vedevo, credevo di vedere, ogni transfer, ogni passaggio, tutta la fatica dei dieci anni di composizione, le ricerche, leggere le cose che leggeva lui per educarsi a pensare e parlare come lui.

Ho veduto l’ambizione che sostiene un romanzo formidabile, e la tenacia che ci vuole e la cura, e la distanza – con tenerezza la vedevo- che separa il francese dal latino. I francesi studiano bene il latino ma vi è una distanza maggiore, e un lettore italiano lo capisce. Ma più di tutto, più del monumento letterario che per sempre Memorie di Adriano costituirà nella storia universale, a me ha straziato l’amore. L’amore bellissimo, altissimo, fino cioè di grana fina, raffinato, l’amore omosessuale che è ogni amore, l’amore che porta la proiezione di sé nell’altro e quella tragedia trattenuta, dopo il suicidio del giovane amante, in ogni statua di cui Adriano si circondava. Ma, attraverso quello, anche la giovinezza, la giovinezza che va e che condanna gli anziani al doppio esilio: quello dalla baldanza del corpo e quello di restare ultimi depositarii di ciò che è stato.

Questo più di tutto mi ha travolto: che ci si può provare: a raccontare la sorte e la memoria, e la paura della malattia e della morte, e ci si può provare solo se guardando quella statua che sta lì da duemila anni, vi si vede ancora guizzare la vita.

la fortuna valeria parrella

L’AUTRICE – Valeria Parrella vive a Napoli, dove si è laureata in Lettere classiche. Da anni collabora con Grazia e la Repubblica, ed è autrice di romanzi, racconti, sceneggiature e opere teatrali. Fra i suoi libri, mosca più balena (minimum fax, 2003; premio Campiello Opera Prima), Per grazia ricevuta (minimum fax, 2005; finalista nella cinquina del premio Strega e premio Renato Fucini), Lo spazio bianco (Einaudi 2008, 2010 e 2018), da cui Francesca Comencini ha tratto l’omonimo film, e Almarina (Einaudi, 2019; finalista nella cinquina del premio Strega).

E veniamo al suo nuovo romanzo, La Fortuna, edito da Feltrinelli: il prodigio viene dalla terra, e scuote aria e acqua. Dal cielo piovono pietre incandescenti e cenere, il mare è denso e la costa sembra viva, ogni mappa disegnata è stravolta, i punti di riferimento smarriti. Lucio ha solo diciassette anni e ha seguito l’ammiraglia di Plinio il Vecchio nel giorno dell’eruzione del Vesuvio, ma non può sospettare che il monte che conosce da sempre sia un vulcano. Per quel prodigio mancano le parole, non esiste memoria né storia a rassicurare. Nascosta dalla coltre rovente c’è Pompei, la città che ha visto nascere Lucio e i suoi sogni, dove ancora vivono sua madre, la balia, gli amici d’infanzia, dove ha imparato tutto ciò che gli serve, adesso, per far parte della flotta imperiale a dispetto del suo occhio cieco – anzi, proprio grazie a quel suo limite, che gli permette di vedere più degli altri, perché “un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente”. E mentre Lucio tiene in mano, per quanto la Fortuna può concedere, il filo del suo destino, ecco che Pompei torna a lui presente e più che mai viva, nel momento in cui sembra persa per sempre, attraverso i giochi con le tessere dei mosaici, i pomeriggi trascorsi nei giardini o nelle palestre, le terme, il mercato, i tuffi in mare e le gite in campagna, le scorribande alla foce del Volturno. La sua intera giovinezza gli corre incontro irrimediabilmente perduta, eppure – noi lo sappiamo – in qualche modo destinata a sopravvivere. Insieme a Lucio, una folla di personaggi, mercanti, banchieri, matrone, imperatori, schiavi, prostitute e divinità, si muove tra le pagine di un romanzo sorprendentemente attuale, in cui niente è già visto: piuttosto ciò che conoscevamo del mondo classico ci appare in un aspetto nuovo, moderno e intimo.

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Fotografia header: Credit: Sara Lando

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