Il carnefice più temibile? La nostra stessa psiche. L’autrice statunitense Ottessa Moshfegh, acclamata per “Il mio anno di riposo e oblio”, propone una nuova figura femminile alle prese con i fallimenti della sua esistenza, questa volta nella forma di un thriller psicologico – L’approfondimento

Inquietudine, solitudine, morte: il ritorno in libreria di Ottessa Moshfegh, acclamata autrice de Il mio anno di riposo e oblio, avviene sotto il segno di tre ingredienti già ampiamente noti ai suoi lettori, il cui mix ben calibrato è stato artefice del suo successo.

In La morte in mano (Feltrinelli, traduzione di Gioia Guerzoni) la protagonista non è più una giovane donna che ha deciso di affrontare le circostanze deprimenti della sua esistenza semplicemente mettendola in stand by – come nel romanzo precedente – ma una vedova settantenne che dovrebbe averle lasciate alle sue spalle. In seguito alla morte del marito, Vesta Gul ha infatti deciso di trasferirsi in uno chalet sul lago lontano chilometri dalla città in cui ha trascorso la sua intera vita coniugale. Con lei solo Charlie, un cane per cui prova l’affezione materna tipica delle persone sole, unica fonte di calore in una contrada di provincia abitata solo da personaggi ostili in cui integrarsi sembra impossibile. In occasione di una passeggiata mattutina tra i boschi, Vesta trova sul sentiero un messaggio:

Si chiamava Magda. Nessuno saprà mai chi è stato. Non l’ho uccisa io. Qui giace il suo cadavere.

Ottessa Moshfegh La morte in mano

Da questo momento in poi la sua vita subisce un violento scossone. Il rifugio isolato in cui si sentiva al sicuro diventa albergo di ombre misteriose, il lago pacifico e rassicurante una minaccia, gli abitanti di Levant dei potenziali assassini o reincarnazioni di Satana: Magda, immaginata come una giovane ragazza immigrata vittima di abusi, si trasforma in una vera e propria ossessione.

Mi sembrava di iniziare a conoscere Magda, e mi piaceva. […] Magda sembrava reale, era diventata importante per me, andavamo d’accordo. A volte persino mi mancava. Mi sarebbe piaciuto incontrarla nella vita reale, anche solo per stringerle la mano. […] Non la amavo come Charlie, o come avevo amato Walter, ma come mi ero affezionata ai piccoli semi che stavano per germogliare in giardino. Nel modo in cui amavo la vita, il miracolo della crescita e della fioritura. L’amavo come amavo il futuro.

Vesta si cimenta in un’indagine morbosa in cui si innestano flashback di dialoghi con il marito e rievocazioni di sensazioni ed episodi della sua vita precedente. In un crescendo di tensione narrativa l’attenzione del lettore si sposta da fantomatici indizi relativi a un omicidio senza prove al sospetto che le misteriose corrispondenze con la realtà siano il frutto di una proiezione mentale priva di fondamento ma impossibile da razionalizzare; pagina dopo pagina capiamo quindi che il vero giallo da risolvere non riguarda la morte di Magda, bensì il passato frustrante di una donna dalla psiche labile vittima dell’egoismo di un marito dalla personalità prepotente.

Con l’abilità narrativa già rivelata nelle precedenti pubblicazioni, Ottessa Moshfegh mette in scena, in un susseguirsi di immagini cupe e dettagli macabri, talvolta ai limiti del grottesco, gli effetti patologici e le dinamiche autodistruttive della solitudine, per cui la necessità di riempire i vuoti emozionali lascia spazio a una percezione distorta della realtà difficile da riparare. La perizia dell’autrice sta nel raccontare questi processi dalla prospettiva interna di chi, inconsapevolmente, ne è artefice e vittima allo stesso tempo: la narrazione in prima persona coinvolge infatti il lettore in un processo di immedesimazione in cui la lucidità oggettiva nel saper riconoscere i meccanismi patologicamente paranoici di Vesta innesca angoscia e turbamento. Proprio come Vesta era stata a suo tempo vittima consapevole ma impotente delle manipolazioni del marito, il lettore riconosce le deviazioni mentali alla base del racconto ma non può fare altro che patire la loro imposizione.

Che strana responsabilità tenere la morte di qualcuno in mano. Sembrava fragile, come un foglio accartocciato, vecchio di mille anni. Una mossa falsa e potevi distruggerlo. La morte era un magnifico pizzo antico e friabile, l’applique, quasi staccata dalla fine rete di fili, penzolava delicata, sul punto di sgretolarsi. La vita non era così. La vita era solida, testarda. La vita ci metteva così tanto a disintegrarsi, bisognava cacciarla dal corpo.

La morte in mano è un thriller psicologico sottilmente orchestrato in cui Moshfegh ribadisce ancora una volta come il carnefice più temibile per noi stessi sia la nostra stessa psiche, sempre visceralmente attaccata alla vita nonostante le pulsioni più masochistiche e autosabotatrici.

 

 

 

 

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