“I padri, in letteratura e nella vita, troppe volte sono un dramma. Un ingombro che affonda, che appesantisce, che non permette di guardare oltre…”. Ne parla in questa riflessione per ilLibraio.it (ricca di consigli di lettura, tra classici e contemporanei), lo scrittore Graziano Gala, tornato in libreria con “Popoff”, in cui propone una commistione di comico e tragico, realismo e fiaba
Ci piacerebbe raccontare in quest’articolo il momento della crepa, l’esatto punto in cui qualcosa si rompe, si sfalda, traccia un solco e si divide da ciò che era. Sarebbe facile, assolutorio, respirabile, giacché quei fatti che si sgretolano segnano poi in qualche misura la fine di una storia, l’inizio di un’altra, il principio di un riposo – fosse pure eterno. E invece a noi tocca parlare di bolle in superficie, di respiri corti, di cose che si gonfiano dentro intasandoti il cuore, lo stomaco, i polmoni.
Non è che ci piaccia, sia chiaro, è che lo preferiamo, fosse pure per quella onestà che ci segna nel momento dell’esame di coscienza.
I padri, in letteratura e nella vita, troppe volte sono un dramma. Un ingombro che affonda, che appesantisce, che non permette di guardare oltre: schiena curva, occhi bassi, piedi saldamente ancorati al suolo. Troppo divario, categorie diverse: solidi loro, certi nella loro struttura muscolare invincibile, tremanti noi, speranzosi con la fede del cane in uno sguardo benevolo che possa significare qualcosa.
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Segnanti le lettere che Leopardi scrive al signor padre Monaldo, conte scrivanato e inarrivabile, dio indiscusso che elargisce (se ne ha voglia) perdono: “Mio caro Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m’inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze” (G. Leopardi, lettera del luglio 1819). Tremendi i fatti a venire: nessun incontro, alcuna assoluzione (dalla colpa di esser figli, forse, perennemente votati all’espiazione del non sentirsi all’altezza – di cosa, poi, impossibile capirlo).
Il padre rimane assassino, come ci dice Felicita Cohen per il tramite del figlio (U. Saba, Mio padre è stato per me l’assassino), carnefice quotidiano dai colpi letali e invisibili che non minano il corpo, ma quello che col corpo la società si aspetta che tu faccia (anche superfluo citarla, quella Lettera di Kafka, che è misura sempre esatta di tutti i fuori luogo che si ritrovano il padre per strada, in ufficio o in camera da letto).
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Ogni passo risulta inciampo, ogni parola vergogna: la voce ti si abbassa, la sicurezza è di casa altrove. Verrebbe da pensare, con cattiveria, che il padre migliore sia quello morto, parafrasando Cosimo Argentina in Per sempre carnivori (minimum fax, 2013): “Se ti deve morire un genitore spera sempre che sia tuo padre. Gli uomini sono più deboli delle femmine e allora diciamo che, sette volte su dieci, dovresti farcela”. Tolta la presenza, tolto l’assedio. Bella bugia questa, di quelle da confessione in chiesa, ché se il padre affonda ti costringe al capezzale diventando da moribondo oracolo e specchio (mi viene da pensare a Nibali, al suo Animale pubblicato da Italo Svevo nel 2022) e se muore come segretamente speri perde quel rimasuglio di conchiglia umana per diventare simulacro, indiscutibile signore, santo in vita ed eletto in cielo.
Chi resta è chi si è perso, chi a un certo punto non ha neppure l’interlocutore per iniziare una trattativa, un affrancamento con un bastone che non bastoni o con un calzino che dichiari liberi: con la morte del padre non si muore e non si vive, semplicemente si resta prigionieri – “Padre, non dovrebbe essere questo. E non lo è: faccio finta. Ritorno al letto, mi ci seppellisco” (A. Donaera, Occhi rossi, ‘round midnight, 2015) – perché il padre non lo espelli, ti resta nelle ossa (e così penso anche le madri, se mi attengo al Cos’hai nel sangue di Giovagnoli, al Da parte di madre di De Paolis, ma è l’altra la mia ferita e in questa non mi posso avventurare) e ti consuma.
Avanza un giorno alla volta, senza timore di essere fermato: nei figli che non riesci ad avere, nelle pose che non puoi replicare, nelle paure di cui diventi custode. Sembra che tutto sia destinato all’implosione, alla rottura del guscio del figlio ospitante, chiamato a posticciarsi padre a sua volta o a terminare le colpe del ghénos negandosi questa esperienza per paura di assomigliare, anche di riflesso, a chi l’ha generato.
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Avrei messo il punto qui, fino allo scorso anno, eppure qualcosa mi ha salvato, giacché i padri possono essere enormi, spaventosi, infettanti, ma l’esorcismo parte dal corpo di chi l’ha subito. Me l’ha insegnato Stassi con il suo Uccido chi voglio mettendo la parola fine alla dittatura del più grande, infilando in bocca a Vince Corso le parole che avremmo voluto dire tutti – Nel nome del padre che non sei mai stato. Del figlio che non ho potuto essere. E delle circostanze che hanno profanato ogni futuro per entrambi (Sellerio, 2020) – e affrancando una volta per tutte quei figli che non vogliono riuscire o fallire, ma più semplicemente provare ad essere senza pagare ogni giorno dazio a un carceriere invisibile e implacabile.
Ce lo dice Gavino Ledda, uno che di ingombri se ne intende, in Padre Padrone (Feltrinelli, 1975): “ma io non me ne andrò senza tentare“. Ecco cosa ci resta di questa possibilità di emancipazione, di fuga dal mito del (vorremmo dire di un certo tipo di) padre: una speranza di tirarsi fuori da un campo di battaglia in cui non ci si riconosce non per codardia o per aspirazione alla resa ma per un principio più semplice, quasi elementare – non sono queste le battaglie che vogliamo combattere.
Non abbiamo muscoli da offrire, timori da incutere, obblighi da comminare. Forse neppure perdoni da distillare religiosamente. Abbiamo, molto semplicemente, un desiderio interminabile: quello di camminare per strada senza vedere più la vostra ombra riflessa ad ogni passo. Di cosa poi saremo, sabbie o mari scossi, adesso importa poco: non lo faremo – non lo faremo – in attesa di un vostro giudizio. Quelli li abbiamo avuti per anni nelle tasche.
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L’AUTORE E IL LIBRO – Graziano Gala è nato a Tricase, in provincia di Lecce. Vive e lavora come professore in provincia di Milano. Ha esordito per minimum fax con il romanzo Sangue di Giuda (2021). Nel 2023 ha pubblicato per Tetra la novella Ciabatteria Maffei e ha curato, per Baldini e Castoldi, il Controdizionario della lingua italiana. Scrive di letteratura per Treccani ed è co-direttore artistico del Festival Duerive, giunto nel 2024 alla terza edizione.
Gala torna ora in libreria per minimum fax con Popoff, in cui l’autore torna a proporre una commistione di comico e tragico, realismo e fiaba. Nel romanzo, con delicatezza, l’autore racconta la storia del piccolo Popoff, che si innamora delle candele votive, segue una dolce ninna nanna cantata nel cuore della notte dalle casse del supermercato, assiste impotente al terribile spettacolo della crudeltà umana. Senza mai stancarsi di ripetere la stessa, disperata domanda: “Ha visto per caso mio padre?”.
La trama ci porta di notte: alla porta di Cimino, un vecchietto un po’ smemorato, bussa un bambino che nessuno ha mai visto. Imbacuccato in vari strati di giubbotti, ha una sola domanda: “Mi scusi, signore, ha visto per caso mio padre?“. In paese il cibo scarseggia, vecchi rancori mai sopiti sono sempre sul punto di eruttare in tragedia, antiche ingiustizie attendono di essere vendicate e gli abitanti diminuiscono giorno dopo giorno a causa di misteriose lettere di espulsione. Senza nome e senza casa, il bambino – ribattezzato Popoff – sa che i genitori sono lì da qualche parte e con l’aiuto dei pochi disposti a dargli una mano è determinato a trovarli…
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Fotografia header: Popoff di Graziano Gala - nella foto di Cagnino