“Mi sono trovato ‘infarcito’ di tutte queste storie, e mi è venuta voglia di scriverle. Un po’ per liberarmene, un po’ per mettere ordine in decenni di caos. (…) Mi piace rubare intimità alle persone: sono un ladro gentiluomo”. Paolo Milone, psichiatra in pensione, sta facendo molto parlare con il suo esordio, “L’arte di legare le persone”, esperimento narrativo tra diario, epistolario e raccolta di poesie. Lo abbiamo intervistato per capire come sono nati questi suoi frammenti di letteratura, che raccontano di anime in pezzi: “L’indicibile ha bisogno di presenza e vicinanza, e del tentativo di comprenderlo”

Per ogni frase un sospiro, per ogni pensiero una pausa. Raccontare decine di vite degli altri costa fatica, e Paolo Milone, psichiatra per professione e scrittore per compendio, sceglie con cura le parole da non dire.

Il suo esordio per Einaudi, L’arte di legare le persone, subito premiato da lettori e critica, è un diario di altrui dolore, un reportage di guerra da un fronte pericoloso e muto. O troppo chiassoso, alle volte.

Non un epistolario né una raccolta, non un romanzo né un diario, il novero dei matti di una vita è un dialogo con i ricordi, con se stesso, con i fantasmi. Suoi, e di quelle anime che ha incontrato.

paolo milone l'arte di legare le persone esordienti

Un esordio che è già una prova d’autore, dottor Milone.
“Sa come è stato possibile? Perché noi psichiatri scriviamo delle cartelle che non sono solo piene di dati clinici, ma sono la storia delle persone: scriviamo tutti i giorni ciò che il paziente racconta della sua vita, e sembrano già dei racconti. L’altra cosa che aiuta è la pratica”.

In che modo?
“Passiamo il tempo a parlar con persone che non capiscono quello che dici. Ci si abitua a parlare in modo frugale, preciso, a tagliare i discorsi complicati. Uno psichiatra sta tutto il tempo a pensare, ‘e adesso cosa dico?’. C’è un continuo lavoro sulla parola. Io, tra l’altro, scrivevo con la penna: i pc sono arrivati quando sono andato in pensione”.

La pensione, appunto: le storie di Lucrezia, di Filippo, di Giulia, le sono tornate in mente quando ha smesso di incontrarli, o erano appunti ai quali lavorava da sempre?
“Come tutti i medici ho avuto un approccio scientifico, ma poi cercavo il rapporto con la gente. A me piace rubare intimità alle persone: sono un ladro gentiluomo. Solo con la tecnica, la parola scientifica, questa cosa non riesci a farla: per questo sono passato su un versante fantastico, narrativo. C’è un pezzo nel primo capitolo in cui dico a un paziente: ‘Stiamo qui, uno davanti all’altro, tu non trovi le parole per dirmi cosa ti succede e io non trovo le parole per capirlo’. Ecco, la parola scientifica a cosa serve in quel momento? Devi stare solo in silenzio, con una persona che resta zitta. Intuisci, però, che sta cercando di dirti qualcosa”.

Come capirlo, come aiutarlo?
“Per entrare in quella situazione, e per restarci, devi avere – non so come dirlo altrimenti – un approccio poetico. Stai in una situazione in cui la parola non esiste. Non può esistere la parola che usiamo tutti i giorni, ancor meno quella scientifica”.

Lei, infatti, scrive che chi non ha mai provato il dolore psichiatrico non può negare che esista, deve solo ringraziare il cielo e andare. È indicibile?
“L’indicibile, però, ha bisogno di presenza e vicinanza, e del tentativo di comprenderlo. È una cosa incomprensibile, che richiede il nostro costante impegno per comprenderla; richiede che continuiamo a cercare di capirla sapendo che non ci riusciremo mai”.

Perché?
“La psicosi rappresenta il disordine, e un disordine mentale ci sarà sempre: è un modo primitivo, basale, che ha la mente umana per funzionare; ma, quando porta dolore, bisogna cercare di capirci qualcosa: già il fatto che tu rimanga lì, che non te ne vada, fa bene a chi soffre. Lui continua a vivere in un mondo di solitudine, ma magari pensa di poter essere capito. C’è un livello, in questo lavoro, in cui la parola poetica diventa strumento di relazione. Non che io pensi di essere un poeta, beninteso. Però è un modo per uscire dalla dimensione scientifica e entrare in una che è…”.

Che è solo umana?
“Queste cose si provano, è difficile spiegarle. La cosa incredibile è come certi psichiatri riescano a trovare la pace in questa situazione di caos e confusione. E per far questo scattano dei meccanismi che non sono scientifici”.

Come la scrittura?
“Mi sono trovato ‘infarcito’ di tutte queste storie, e mi è venuta voglia di scriverle. Un po’ per liberarmene, perché era troppa roba, un po’ per mettere ordine in decenni di caos. E poi per una ragione strumentale che è emersa dopo: mi sono detto: ‘ora che vado in pensione mi mancheranno, tutte queste relazioni umane; invece di prendere antidepressivi, le scrivo’. Ho deciso di scriverle per trovare consolazione nei momenti di solitudine”.

La psicoterapia letteraria dello psichiatra. Lei definisce la psichiatria d’emergenza come un corpo a corpo: anima e materia si coinvolgono, qual è il punto di rottura?
“È sempre la relazione. È inevitabile mangiarsi, nelle relazioni: ci sarà sempre il tentativo di uno di soverchiare l’altro, di usarlo. Costruire buone relazioni è difficile, in ospedale ancora di più. Ma a me è capitato di costruirle, e quando questo è successo, mi ha ripagato. È consolatorio rispetto al caos, alla crudeltà del mondo”.

Crudeltà che non è solo nel mondo: nelle storie che lei racconta tanta cattiveria è spesso dell’uomo contro se stesso.
“Le persone, tutte, devono controllare rabbie, desideri, vergogne, sconfitte. E più o meno ci riusciamo, ma sempre fino a un certo punto. Noi ci confondiamo, però riusciamo in qualche modo a recuperarci. Ci sono invece delle persone più fragili che non riescono a resistere, vengono invase. Non riescono più a stare a galla, a navigare, non tanto perché accada qualcosa fuori, ma perché qualcosa dentro di loro le scompagina. Così perdono il senso di se stessi. Purtroppo questa è una fragilità genetica, che non consente di recuperare una scala di priorità nella vita. Se le recuperi ristabilisci la rotta, se non sei capace perdi te stesso e vai in confusione. I primi due passi della malattia mentale sono la depersonalizzazione e la derealizzazione”.

Cosa accade?
“Ti senti estraneo a te stesso e non ti riconosci nella realtà, come se fosse un sogno. Se vai avanti perdi anche l’uso della parola, e la parola è ciò che definisce la realtà. Ma se il tutto ti è estraneo, non lo riconosci, perdi il senso di tutto, anche delle parole. E se perdi il senso delle parole, non hai più modo di mediare con te stesso. È così che il corpo viene in primo piano: le persone tremano, sbattono, urlano, oppure si bloccano.”

La stabilità mentale passa dalla relazione. Inevitabile pensare che la cronaca ci sta parlando di un incremento dei disturbi psichici dopo questo anno di paura e chiusura. Cosa succede a un uomo in gabbia?
“Succedono tante cose, che non conosciamo neanche. Noi siamo realmente una specie sociale, ci costruiamo nella relazione. Ci sono anche persone che si isolano, gli eremiti, ma hanno comunque una vita di relazione precedente, e mantengono la socialità come possibilità. È una cosa fisiologica: anche un lupo in gabbia non soffre solo perché non può correre, ma anche per la mancanza dello scambio con gli altri. Serve proteggersi reciprocamente, condividere le paure. Nel nostro caso ha funzionato una compensazione: la solitudine in cambio di un più forte senso di unità sociale, come nazione, affidando la nostra fiducia a chi stava studiando le cure e i vaccini. Come quando c’è una guerra: un aumento della speranza del gruppo”. 

Precedente medico e letterario della sua opera è, tra gli altri, quello di Mario Tobino, che raccontò la sua esperienza da psichiatra in forma di romanzo. Erano gli anni dei manicomi. Cosa cambia, e cosa rimane?
“È cambiato tutto: sono cambiati gli psicofarmaci. In Tobino c’è questa atmosfera lenta, come se non succedesse mai niente. Ora in psichiatria si corre, in poche settimane si passa dalla contenzione alla dimissione. È cambiato il ritmo”.

La cifra stilistica che lei ha scelto è una commistione tra l’epistolario e la raccolta di poesie, una summa di frammenti. Come un dialogo tra il medico e le anime ferite che cura:  la forma del frammento è per lei la più consona per raccontare le anime spezzate?
“Sì, è una bella suggestione. Però ho un altro riferimento”.

Quale?
“Marziale. Mi sono trovato ad allungare una mano nella libreria e ho preso gli Epigrammi: ho detto ‘è così che si scrive!’. Come tutto ciò che si fa in psichiatria, Marziale è ambivalente: riesce a dire delle cose cattivissime a un interlocutore, e poi riderne con lui. Fa dei pezzi piccoli, intestandoli a una persona, e così esce dal narcisismo e dall’autismo del parlare con se stesso. Ha risolto tutti i problemi. In psichiatria è tutto così complesso che o si fa in questo modo o si scrive una sola frase senza punteggiatura dall’inizio fino alla fine del libro, tanta è la complessità. Ma così si impazzisce, e poi questo lo ha già fatto Joyce. Allo psichiatra, invece, piace mettere ordine nel disordine e disordine nell’ordine, è come l’alternanza tra melodia e improvvisazione di Miles Davis nel free jazz”.

Non le chiediamo cosa ci sia di vero in questo viaggio lungo decenni. Ma il reparto 77, quello delle anime ferite, si lascia mai davvero?
“Ho scritto che guardo l’abisso con gli occhi degli altri, come un vile. E per fare questo lavoro serve fatuità: un certo distacco da se stessi e dagli altri. Ma anche con quella l’abisso, una volta visto, è difficile da dimenticare”.

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