Lorena Spampinato torna in libreria con “Piccole cose connesse al peccato”, e su ilLibraio.it ricorda le estati della sua infanzia e adolescenza (“Quando una donna di mezza età mi accusò di calpestare la sua ombra”)…

Ogni tanto mi torna in testa un episodio scemo di un’estate in spiaggia, a Letojanni, nella provincia di Messina, quando io ero una bambina e una donna di mezza età mi accusò di calpestare la sua ombra. Avevano, i villeggianti stagionali, l’abitudine cattiva di lasciare gli ombrelloni piantati nella sabbia, giorno e notte: segnaposto presuntuosi, irragionevoli, come i capitavola dei maschi nei pranzi di famiglia.

Lo facevamo anche noi, e altri nostri amici e parenti: già a luglio si sceglieva il posto, vicino abbastanza alla rampa per la discesa a mare, nel punto che era facile sorvegliare dai balconi. I padri avvitavano i pali arrugginiti alla rena, li fissavano a terra con grosse pietre. Noi figlie stavamo a guardare. Lo sapevamo: l’ombra ovale avrebbe tracciato i perimetri, la divisione rigida degli spazi. Per un mese, lì sotto, avremmo simulato l’accoglienza delle case: vieni da me, c’è posto, grazie. Gentilezze fasulle, che pure esibivamo con fierezza.

Ho il ricordo di tutte le amiche, le cugine, salvate dalla minaccia del sole; dicevo: andiamo da me, ombrellone verde e blu, il più vicino all’acqua.

Al pomeriggio, quando il sole scendeva, le geometrie si allargavano, guadagnavano metri: i lunghi corridoi d’ombra toccavano la battigia. Lì sopra camminavamo come funamboli sui fili, saltando da un punto all’altro: acrobate, equilibriste.

Quando la donna mi accusò di calpestare, giocando, il suo spazio, io nemmeno me ne accorsi. Dovette ripeterlo una, due volte, perché capissi. Continuava a dire: levati da lì. In mano reggeva a fatica una sdraio pieghevole che indicò con un gesto veloce del mento. Fece segno anche con la mano libera: il suo ombrellone, poi l’ombra che arrivava a me. Disse: Ti sposti? E io mi vergognai all’istante, chiesi scusa. Velocissima raggiunsi mia madre e lì cercai riparo.

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Anni dopo, da ragazza, mi capitò di ripensare a quella scena. Era estate anche allora e il posto era lo stesso, solo che le bambine erano cresciute, avevano raggiunto l’età per far tardi la sera e aspettavano Ferragosto con trepidazione, impazienza. Per una notte sarebbe capitato di accendere falò, dormire in spiaggia; gli occhi di tutte luccicavano.

L’aria s’era fatta festosa già dal giorno prima: si pensava a comprare da bere e mangiare, ai maschi da invitare, ai modi per nasconderci alle madri che vigilavano dalla strada. Le tende da campeggio erano proibite: i genitori di tutte si erano opposti fortemente, avevano detto no e no. Così ci venne in mente la furberia di inventarci una capanna: ombrelloni uniti, alcuni aperti e adagiati sulla sabbia, altri stretti tra loro a formare un tetto. Le case lievitate dei giochi dell’infanzia: adesso ville, castelli.

Passeggiavamo sul lungomare quando ci venne l’idea: quella sera, quando il buio avrebbe coperto il litorale, avremmo recuperato gli ombrelloni che servivano. Ci saremmo mosse leste lungo la riva, strappando uno a uno i pali lucidi che puntellavano la spiaggia. Correndo fortissimo: ladre, bandite. Immuni alla paura.

Accadde davvero. Quando la spiaggia fu un covo d’ombre, ci sorprese l’avventura. Fui io la prima: strinsi le mani attorno all’asta bianca, tirai con forza. L’ombrellone venne via velocemente, lo presi sotto l’ascella come un termometro e mi preparai alla corsa. Le altre fecero lo stesso. A quel punto ridevamo come matte. L’euforia aveva preso lo stomaco, ci sentivamo forti, invincibili.

Correvamo, gli ombrelloni sottobraccio, e intanto mettevamo al sicuro le bambine, quelle del presente, quelle del passato. A nessuna di loro sarebbe accaduto di dover cedere l’ombra, lo spazio.

Rubando la spiaggia agli adulti, rompevamo i vincoli, le regole, il palcoscenico. Pestavamo i piedi, compivamo la vendetta. Smettevamo di dare del lei, chiedere scusa, permesso. L’arroganza di una Terra spenta da un coraggio di ragazzine: una promessa di felicità.

Nel mio ultimo romanzo, Piccole cose connesse al peccato, scrivo di loro: di ragazze che corrono per salvarsi, di disobbedienza e adolescenze furiose, di madri e di figlie, e poi di una Terra irrequieta, incagliata nelle sue convinzioni, dove persino le ombre – le cose inesistenti – istigano prepotenze, disperazioni.

Lorena Spampinato Piccole cose connesse al peccato

IL LIBRO E L’AUTRICE – Lorena Spampinato è nata a Catania nel 1990. Ha esordito nel romanzo a 18 anni con La prima volta che ti ho rivisto (Fanucci Editore), ha vissuto a Londra e a Roma e si è laureata in Scienze politiche. Il suo romanzo più recente, Il silenzio dell’acciuga (Nutrimenti), è stato proposto per il premio Strega 2020 da Lidia Ravera.

Ma passiamo ora alla trama del suo nuovo libro, Piccole cose connesse al peccato (Feltrinelli), un romanzo di formazione costellato di figure femminili: Annina ed Enza dividono una stanza nella vecchia casa della nonna, in una località non lontana da Taormina, ma dove non c’è nulla, se non pochi bar-gelateria e lidi balneari. Più grande di Annina (che ci racconta la storia) e con una bellezza ormai sbocciata, Enza si aspetta un’estate di litigi con la madre e una noia infinita.

Ma la vacanza prende tutt’altra direzione quando incontrano Bruna: la ragazza più irregolare del paese, che si porta dentro un lutto e una sete di rivalsa, e conosce benissimo un giro di ragazzi che si arrabattano con espedienti non proprio legali, cresciuti, come sono, in famiglie disagiate e violente. Il pericolo non viene dai maschi, ma da tutto ciò che sobbolle tra le protagoniste: rivalità, smania di diventare donne, confusione del desiderio.

La scoperta di una realtà più arcaica di quella borghese delle loro famiglie, l’affacciarsi incerto e prepotente della sessualità, l’idea di un potere femminile senza colpe e senza restrizioni, tanto generativo quanto distruttivo, sembrano aprire per le due adolescenti le possibilità della via di fuga di un diverso destino. L’estate siciliana diventa così un teatro dove sotto lo scorrere delle esperienze adolescenziali – le feste, le sfide, il conflitto con le madri – emerge una dimensione archetipica.

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