Nella lista dei buoni propositi per il nuovo anno, annoveriamo rileggere “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville, un racconto enigmatico e ipnotico, precursore della letteratura dell’assurdo, famoso per l’iconica battuta del protagonista: “Preferirei di no”. Un testo che ci porta a riflettere su cosa ci distingue dalla massa e cosa, invece, ci rende individuali, indipendenti e unici – L’approfondimento

Per l’anno nuovo, nella lista dei miei buoni propositi, c’è quello di diventare adulta. Sarà che nel 2021 uscirò dai venti per entrare negli -enta, sarà che ho da poco ottenuto un contratto a tempo indeterminato, sarà che in quest’anno sono successe tante (troppe) cose che mi hanno scaraventato sulle spalle una serie di impegni e responsabilità mai avute prima, sarà che per la prima volta ho provato la straniante sensazione di essere genitore dei miei genitori, ma l’ho capito, ed è questo l’unico obiettivo che conta adesso: essere grande.

In realtà ci sono stati diversi momenti, nel corso della mia vita, in cui ho creduto di aver già raggiunto il traguardo dell’adultità: quando ho lasciato la casa dei miei per trasferirmi in una città lontana, quando ho comprato il biglietto per un lungo viaggio da sola, in un altro continente (che poi mi avrebbe rispedito indietro, probabilmente proprio perché non ero abbastanza adulta), quando mi sono accollata un mutuo di otto anni per frequentare un master, e forse anche quando ho cercato di acquistare una casa all’asta.

Ma no, nessuno di questi eventi ha segnato realmente il passaggio verso una nuova fase della vita.

Eppure sono stati episodi importanti, eclatanti, alcuni pure traumatici, che mi hanno segnata e cambiata. Ma se dovessi identificarli come punti di una svolta decisiva, ecco, non so se riuscirei a farlo. Soprattutto perché poi la svolta c’è stata per davvero e, paradossalmente, è stata molto meno epica e memorabile di un cambio di residenza, o di una firma su un contratto bancario.

Diciamo invece che ha coinciso con un gesto abbastanza banale e ordinario, un atto piuttosto comune nelle mie giornate, come quello di prendere in mano un vecchio libro e iniziare a rileggerlo, un po’ per svogliatezza un po’ per nostalgia, senza seguire perfettamente il filo della trama, ma saltando da paragrafo a paragrafo, e soffermandomi su alcune espressioni evidenziate a matita.

Bartleby lo scrivano di Herman Melville

Quel libro è Bartleby lo scrivano di Herman Melville, un racconto che torno a sfogliare spesso; credevo semplicemente per affetto, ma ora penso che sia perché non l’avevo mai compreso davvero. Perché c’era qualcosa che mi attirava, ma che non riuscivo del tutto a decifrare. E quella cosa era una frase, la frase più iconica del testo, una battuta che pronuncia il protagonista e che riesce a condensare, soltanto in tre parole, la caratterizzazione di un personaggio, una filosofia di vita e una critica sociale: “Preferirei di no“.

Del resto, che non l’avessi capito può essere comprensibile, considerando che i letterati si sono parecchio spesi nel tentativo di analizzare il significato di questo enigmatico racconto, precursore della letteratura dell’assurdo, che vede un copista dall’aria strana e immobile declinare ogni richiesta rivolta dal suo datore di lavoro, un brillante avvocato di Wall Street, con una semplice e flautata dichiarazione: “Preferirei di no“.

La storia si apre con Bartleby che viene assunto in un ufficio per svolgere una mansione che, come dice Alessandro Baricco, è “il grado zero dell’emozione“. L’avvocato (che è anche la voce narrante) sostiene di essere rimasto fin da subito impressionato e incuriosito dal suo modo di essere flemmatico e imperturbabile, così diverso dagli altri suoi collaboratori, Turkey, Nippers e Ginger Nut, che invece si mostrano ambiziosi, insolenti e a tratti irritanti.

Ma l’atteggiamento di Bartleby non è solo una semplice nota caratteriale, bensì una scelta di azione, che si traduce in un rifiuto tenace e costante di fronte a qualsiasi imposizione esterna.

Mentre il narratore descrive l’incredulità e la rabbia di chi lo circonda, il licenziamento, lo sfratto e, in conclusione, la reclusione del protagonista in prigione, sembra che in ogni pagina stia chiedendo ai suoi lettori: cosa ci distingue dalla massa e cosa invece ci rende indipendenti e unici?

Quasi tutti sono stati d’accordo nel considerare il racconto in anticipo sui tempi (è stato pubblicato per la prima volta nel 1853 sulla rivista Putnam’s Magazine), essendo un testo che tratta questioni come l’insoddisfazione, la frustrazione e la depressione sul lavoro. Al tempo stesso molti lo vedono come un’opera dai tratti autobiografici, visto che quando uscì Bartleby Melville si stava riprendendo dal fallimento di Moby Dick (il libro sarebbe diventato un classico dopo quasi mezzo secolo dalla sua pubblicazione), romanzo che non sembrò convincere il pubblico come i suoi precedenti TaipiOmoo.

Secondo questa interpretazione, l’avvocato dovrebbe rappresentare il lettore comune, che desidera che Melville continui a “copiare” i suoi primi lavori, mentre l’autore risponde che “preferirebbe non farlo”, smettendo infine del tutto di scrivere.

Quel che è certo è che la figura di Bartleby risulta ipnotica e mistica, per la sua “signorile nonchalance cadaverica, nello stesso tempo risoluta e controllata”, ma soprattutto per la sua capacità di schierarsi contro l’autorità, di dire di no, che sembra una cosa semplice, ma invece semplice non lo è proprio per niente. E non lo è in nessuna circostanza quotidiana, magari proprio a lavoro, pensiamoci: quante volte ci sentiamo nella posizione di poter rifiutare con serenità? È o non è una possibilità reale quella di potersi sottrarre a una richiesta (non per negligenza, ma per motivi che noi stessi riteniamo validi)?

Almeno per me, sono rarissime, se non quasi inesistenti, le situazioni in cui mi sento libera di dire no. Dalle scelte più futili e apparentemente innocue, come un’uscita o un saluto rapido in tempo di Covid, a quelle più decisive e importanti, quelle che, in fondo, mi rendono la persona che sono. Non solo: Bartleby sa dire di no con un atteggiamento pacifico e distaccato, sa imporsi con autorevolezza senza ricorre alla prepotenza (è forse questa l’età adulta?).

Insomma, Bartleby come Gandhi, come Martin Luther King, come Leymah Gbowee. In alcune letture questo personaggio è stato accostato addirittura alla figura di Cristo, alla filosofia di disobbedienza nonviolenta thoreauviana, all’immagine dell’artista alienato e sfruttato (Bartleby è pagato per compiere un lavoro meccanico e ripetitivo: copiare), ai lavoratori vittime di un sistema oppressivo, al pensiero esistenzialista sull’assoluta mancanza di significato della vita.

Imperscrutabile e irrisolto, anche alla fine del racconto, Bartleby non svela niente di sé, non dà risposte né insegnamenti. Resta fedele a se stesso, non si piega, non asseconda chi lo vuole comandare. Come qualunque persona in grado di resistere o, meglio, di esercitare una leggera ma sostanziale resistenza. Una presa di posizione, un atto di volontà, di autodeterminazione. Un modo per occupare il proprio spazio e dire, di fronte all’insensatezza di tutto il resto, “io ci sono, esisto”.

Abbiamo parlato di...