Come si racconta una vita? O meglio: è possibile raccontare una vita, a maggior ragione se non si tratta della propria? Nel suo nuovo libro Gaia De Pascale dà voce alla poetessa Antonia Pozzi (13 febbraio 1912 – 3 dicembre 1938). E su ilLibraio.it spiega anche cosa la lega ai suoi versi (la sua figura è oggetto di una riscoperta tanto di pubblico quanto di critica)

Come si racconta una vita? O meglio: è possibile raccontare una vita, a maggior ragione se non si tratta della propria? È, questa, una domanda che mi sono posta spesso nel mio lavoro di ghost writer, o di coautrice di storie che raccontavano esperienze biografiche altrui. La mia risposta è sempre stata la stessa: certo che no. Si può aiutare qualcuno a riordinare i frammenti delle cose accadute, come in un paziente collage. Si possono riportare sulla pagina scritta le parole più significative, tra le tante che descrivono il susseguirsi dei giorni, o isolare a seconda dei casi questa o quella voce tra le molte che un individuo utilizza per descrivere se stesso. Si può, in definitiva, mediare tra le molte identità che caratterizzano le persone, afferrare barlumi di presunta verità, recitare la parte che il protagonista ha deciso di darsi. E anche così, ne sono convinta, è un continuo parlare di se stessi, scegliere nell’altro quello che più ci somiglia, e dargli spazio.

A ben pensarci una cosa molto simile accade al lettore: anche lui si cerca nelle storie altrui, tenta di costruire un rapporto empatico con i personaggi, si dichiara disposto, proprio come loro, a lasciarsi coinvolgere – e sconvolgere – dagli eventi. Ed è in questa veste, la veste di lettrice, che mi sono avvicinata, fin dagli anni dell’Università, alla figura di Antonia Pozzi. Prima, come è ovvio, ne ho conosciuto e amato la poesia, ma andando appena più a fondo mi è sembrato palese che in Antonia vita e poesia sono sempre arrivate a coincidere.

“Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”, così scriveva la poetessa, condensando in poche parole il senso di tutta un’esistenza. Non si può capire a fondo la vicenda poetica di Antonia Pozzi senza conoscerne la vicenda umana. E quella vicenda umana mi ha attratto non tanto per la sua tragica fine, per gli amori negati, per le intemperanze, o i fervori  universitari, o i numerosi viaggi in Italia e in Europa. Mi ha attratto perché è stata un’esistenza tutta giocata sul filo. In limine, tra poesia e prosa, spiritualità ed erotismo, montagna e pianura. Tra gli ambienti dell’alta borghesia o della vecchia aristocrazia lombarda e i più sordidi sobborghi maleodoranti di una Milano, e di un mondo, sull’orlo della catastrofe. Se c’è qualcosa di davvero imperdonabile nella vita di Antonia Pozzi è essere stata davvero parte di tutte queste cose, senza tradirne nessuna. Per questo in ventisei anni è riuscita a vivere un numero infinito di vite, finché è stato appunto questo, la “troppa vita”, a farla implodere – non senza, però, farla sostare, ancora una volta, su una soglia, quella definitiva: tra la vita e la morte. Ed è stato proprio lì, su quel crinale estremo, che ho voluto immortalarla quando ho scelto di parlare di lei.

Mi restava solo un unico, grande dubbio. Quale punto di vista scegliere per raccontare una donna che ha fatto parte della storia culturale e sociale del nostro Paese, un’artista vissuta quasi cento anni fa?  Se già raccontare la vita di una poetessa degli anni Trenta può sembrare ambizioso, decidere di farlo in prima persona può apparire persino presuntuoso. Eppure, in questo caso, mi è sembrato un atto dovuto. Molto è già stato scritto di Antonia Pozzi in terza persona. Guardarla ancora una volta da fuori, con rispettoso distacco, mi sarebbe parso un continuare a lavorare per elisioni: quello che non si può dire, quello che non si può fare. Lo scandalo al quale non è dato accedere. Ma il nodo del suo insanabile dolore è stato tutto lì: nelle parole non dette, in quelle non capite.

Dopo la sua morte gran parte delle testimonianze dirette sono andate perdute, cancellate dalla famiglia, epurate dei passaggi più “scomodi”. Così quello che ci resta è un’Antonia a metà. Io volevo, invece, entrare dentro quei silenzi obbligati. Farli miei, certa che la verità di Antonia Pozzi non è in questo o quel gesto, in questo o quell’evento, ma nella sua ostinazione a vivere della poesia, e della parola, come le vene vivono del sangue. Fino all’ultimo, senza interruzioni o soluzione di continuità. È dunque nella pagina strappata che ho preteso di entrare: nell’unico posto in cui mi era permesso accedere, perché in quei varchi la mia vita e la sua si sono potute incontrare, così distanti, così uguali.

E allora: si può raccontare una vita, a maggior ragione se non si tratta della propria?

Certo che sì.

 

 

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