“Io lo so perché sono qui, so perché mi ci hanno portato con le catene ai piedi e ai polsi, con il bavaglio sulla bocca e al collo il bavero nero dei peggiori delinquenti…”. Inizia così il racconto inedito di Stefania Auci, scritto in occasione del festival “Gita al Faro” di Ventotene, che ilLibraio.it ospita integralmente

Io lo so perché sono qui, so perché mi ci hanno portato con le catene ai piedi e ai polsi, con il bavaglio sulla bocca e al collo il bavero nero dei peggiori delinquenti. Mi hanno trascinato lungo la scala di scogli e nemmeno ho potuto implorare che andassero un po’ più piano perché no, non c’era spazio per la pietà in loro, perché quello che avevo commesso era un delitto senza perdono.

Un tempo, gli assassini come me si legavano, gambe e braccia, a quattro cavalli, che poi venivano spinti in direzioni diverse: il corpo finiva smembrato, ma lì almeno c’era una stilla di pietà, perché la testa veniva tagliata via quasi subito.

A me non hanno riservato questa sorte, ma una peggiore: mi hanno strappato l’anima e l’hanno legata a questo scoglio sputato da un vulcano milioni di anni fa, lasciando che il vento la lacerasse, anche se forse era già in frantumi ancor prima di staccarsi dal mio corpo. Un corpo le cui ultime tracce ora appartengono a questo luogo. Agli scogli scuri. All’odore del mirto e della ruta. Alle strida dei gabbiani.

Ai tonfi del mare in burrasca contro le pareti di basalto dell’isola di Santo Stefano. E, sì, anche al vento, che qui ha una voce, una voce che si fa grida e gemito e che copre altre grida, altri gemiti.

Nessuno capisce, nessuno chiede, nessuno vuole sapere. Punizione e sofferenza sono le uniche lingue che tutti parlano.

Prima di uccidere, prima di scegliere la strada della libertà, avevo cercato di mettere ordine nella mia vita. Il New Jersey, che mi aveva accolto quando ero fuggito dalle vessazioni della polizia italiana, non era mai stato una nuova patria, per me. Avevo un lavoro, una moglie, due figlie, eppure non avevo niente, perché intorno a me non c’era giustizia. Così ero tornato in Italia, avevo mandato dei soldi a Maria, a Prato, anche per quel figlio che non portava il mio cognome, e avevo preso congedo da mia sorella, a Bologna. Poi, con la pistola che mi ero portato dall’America, avevo atteso, spiato, controllato, provato.

E alla fine, in un’afosa notte di luglio, avevo ucciso.

Lo chiamavano il «re buono», Umberto I, e io sputavo per terra ogni volta che lo sentivo definire così. Perché non era che una marionetta nelle mani di coloro che davvero decidevano delle sorti del mondo. Un mentecatto che aveva soffocato nel sangue le richieste di giustizia sociale di quei contadini e di quegli operai siciliani che si erano uniti nei Fasci. Un idiota che aveva lodato il generale Bava Beccaris, il cannoneggiatore della povera gente di Milano affamata dal rincaro del prezzo del pane, mentre i borghesi, al riparo delle loro case, urlavano: «Tirate forte! Mirate giusto!»

Anch’io avevo sparato, sì. E anch’io avevo ucciso. Ma avevo ucciso un princìpio, un’idea di potere, e non una madre che non riusciva a sfamare i figli o un padre abbrutito dal lavoro. E sarei morto subito pure io, linciato dalla folla, se non fosse stato per il capitano dei carabinieri che mi aveva arrestato e che, così facendo, mi aveva protetto. Non che avrebbe fatto differenza. Le anime dei dimenticati avevano avuto la loro vendetta.

E, da allora, nulla aveva fatto differenza. Dal processo all’arrivo su quest’isola, tutto era scritto, tutto era prevedibile. E forse era prevedibile anche che nessuno avesse compreso veramente la ragione del mio gesto. Eppure era semplice: se si crede in qualcosa – nella libertà, nella giustizia sociale, nel bene comune – si agisce, si esercita il privilegio della coscienza. Si sceglie da che parte stare. E invece – avevo scoperto – è ancor più semplice bollare tutto come utopia. E punire chi vuole realizzarla.

Quattro mesi avevo trascorso qui, qui dove il carcere era davvero carcere, dove le punizioni corporali erano all’ordine del giorno, dove un coltello poteva infilarsi nella carne di altri miserabili senza un moto di pietà, o di rimorso. Giorni in cui avevo camminato lungo il perimetro della mia cella, sempre con i ceppi ai piedi, mangiato da piatti in cui le guardie avevano sputato, scacciato topi e insetti dal mio giaciglio. Sempre in silenzio, tranne quando veniva il frate a chiedermi se volevo sgravarmi l’anima con una confessione. Allora, ridendo, dicevo: «La confessione presuppone una speranza e io, di sperare, non ho più ragione. La mia vita è finita».

Non sapevo come mi sarebbe stata tolta.

Quella notte, la ronda era già passata. I cancelli erano sprangati, le celle serrate, il silenzio più pesante che mai.

Stavo dormendo, il braccio piegato sotto la testa, il corpo rannicchiato per tenere lontana l’umidità della primavera.

Nel buio, avevo sentivo uno sferragliare di chiavi e poi un suono più leggero, lontano. Passi. Non era raro che le guardie venissero a «parlare» coi detenuti. Tutti sapevano, nessuno protestava.

Solo che, quella notte, i passi si erano fermati davanti alla mia cella.

Erano entrati in fretta. Uno era rimasto sulla soglia, a dare ordini: due mi avevano afferrato per le braccia e uno per i piedi. Mi ero ritrovato con un cencio sporco ficcato in bocca. Poi con una stoffa, forse un asciugamano, attorno al collo. Dentro la stoffa, una corda; sentivo l’odore della canapa attraverso il cotone.

L’aria aveva cominciato a mancare; la inseguivo e lei mi sfuggiva; mi dimenavo, volevo gridare, ma le urla non uscivano. Il dolore, prima una lama fra la trachea e le corde vocali, stava diventando una morsa che mi stritolava per intero, che mordeva la pelle sudata.

Allora uno degli uomini si era inginocchiato sul mio petto, alternando bestemmie a insulti a me e ai suoi compagni, che incitavano a stringere di più, a fare più in fretta, perché ero un bastardo che non meritava di vivere

Nella mia mente dilaniata dal dolore, si susseguivano immagini, violente come lampi: mia madre, il telaio della fabbrica americana, le mie bambine, la pistola, la carrozza nera del re, mia madre, mia madre… mamma, mamma. Mamma.

Poi silenzio e buio.

Quando avevo aperto gli occhi, tutto era grigio, come se qualcuno avesse steso un velo sul mondo. Avevo visto il mio corpo riverso sul pavimento, poi qualcuno che lo sollevava per appenderlo con l’asciugamano alle sbarre della finestra della cella.

Ero rimasto lì per giorni, ignorato da tutto e da tutti. Ma non dalle mosche.

Solo quando l’aria era diventata irrespirabile le guardie si erano decise ad aprire la cella.

Eccomi lì. Ero morto.

Che sorpresa.

Il medico incaricato dell’autopsia si era trovato davanti un sacco di carne che brulicava di larve. Era stato impossibile individuare le ecchimosi sul torace o il segno della corda.

Poi era arrivato il frate. Si era fatto il segno della croce, ma si era rifiutato di benedirmi o anche solo di dire una preghiera.

Anarchico. Regicida. Suicida.

Mi avevano depositato in uno spiazzo di terra al di fuori del cimitero, perché quello era il posto delle anime irredimibili. Da lì, avevo osservato due carcerati – delinquenti comuni, quelli che stavano zitti e lavoravano a testa bassa – mentre scavavano la mia fossa. Nessun segno, nessuna croce, nessun nome.

Solo dopo qualche settimana – o forse qualche mese, chi può dirlo – una mano pietosa aveva messo un fiore su quel tumulo di terra. Era stato allora che avevano deciso: non ero degno neppure di stare lì; dovevo sparire e basta.

Così un giorno, poco prima dell’alba, avevano svuotato la fossa, gettando in mare i miei resti.

Per un istante, il mio spirito era tornato nella carne. Avevo avvertito il freddo salmastro, poi il buio si era chiuso intorno a me, come in un abbraccio. Almeno il mio corpo aveva trovato pace.

Adesso sono silenzio tra i rovi e le piante di pittosporo. Sono aria che attraversa le celle, sono voce che non può essere udita, sono brivido. A volte, immagino di guardare il mare e il cielo ancora con occhi mortali e di vedere i loro colori, e mi consolo. Perché significa che la speranza esiste e quindi posso ancora chiedere perdono. Non di aver ucciso un re, ma di aver fatto soffrire le persone che amavo – le mie donne, i miei figli, la mia famiglia – e che adesso sono silenzio e polvere, aria, voce e brivido come me.

Ma anche il loro ricordo, adesso, è vago come il profilo di Ventotene in un giorno di bruma. E so che è così per tutti quelle che sono arrivati sull’isola e non l’hanno più lasciata.

Lo so che ci sono. Li sento. Siamo tutti incatenati a questa terra senza vita.

Io sono ancora qui. E no, non sono solo.

libri saghe familiari l'inverno dei leoni

L’AUTRICE E IL FESTIVAL – Dopo il bestseller I Leoni di Sicilia, autentico caso editoriale internazionale, il 24 maggio Nord ha pubblicato L’inverno dei Leoni, il nuovo libro di Stefania Auci, che chiude la saga dei Florio.

L’autrice siciliana quest’estate ha preso parte all’edizione 2021 del festival Gita al Faro, la cui decima edizione si è svolta dal 22 al 27 giugno a Ventotene. Gli ospiti (la stessa Auci, Laura Bosio, Ernesto Franco, Siegmund Ginzberg , Matteo Nucci, Gilda Policastro, Lidia Ravera, Nadia Terranova e Nadeesha Uyangoda) hanno raggiunto l’isola per scriverne e condividere con il pubblico le proprie storie. Durante la loro permanenza sull’isola, infatti, le scrittrici e gli scrittori hanno avuto la possibilità di dedicarsi alla stesura di un racconto e di partecipare a incontri serali coordinati da Loredana Lipperini (giornalista, autrice e direttrice della rassegna), presso la libreria Ultima Spiaggia.

Per gentile concessione dell’autrice, della casa editrice e del festival, su ilLibraio.it abbiamo il piacere di ospitare il racconto inedito firmato dalla scrittrice italiana più letta degli ultimi anni.

A settembre uscirà la raccolta L’isola delle storie, che raccoglierà tutti gli inediti di tutte le edizioni del festival, in occasione del decimo anno del Festival.

Fotografia header: Stefania Auci - foto di Yuma Martellanz

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