Dai romanzi, recenti, di Pietro Grossi e Alessandro Zaccuri (e se ne potrebbero citare diversi altri, tra cui gli ultimi libri di Piperno e Cognetti), passando per classici come Kafka, Svevo e “Il male oscuro” di Berto, fino al Tondelli di “Camere separate”: su ilLibraio.it la riflessione di Mario Baudino dedicata al racconto della figura del padre da parte degli scrittori italiani contemporanei…

A Pietro Grossi basta una “espressione timida che non avevo mai visto” per riconciliarsi col “babbo”, dopo un’epica e in parte insensata navigazione tra Groenlandia e Canada su una barca a vela, l’assalto di una balena, la conseguente avaria tra i ghiacci e una disperata lotta per non rimetterci la pelle. Un riassunto come questo non rende giustizia a Il passaggio (Feltrinelli), ma può essere utile per cogliere una rosa di temi cari allo scrittore – che esordì con Pugni nel 2006, dedicato al mondo della boxe, anche in questo caso con una perfetta e romantica cognizione dell’ambiente, tecnicismi compresi.

pietro grossi il passaggio
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Grossi è una narratore di poche parole, e di densità. Le sue storie ci portano per derive e tangenti ad altri libri ed altre letture: questa, per esempio, potrebbe indurci a ripercorrere i romanzi di mare di un Björn Larsson, fino a classici come Melville o Conrad, per non parlare di Hemingway: ma anche a rivolgerci al tema molto novecentesco del rapporto col padre, che proprio in questo scorcio di anni sembra tornare di grande attualità se pure con prospettive in apparenza mutate.

Grossi dà l’impressione di poter stare nelle tradizioni proprio come il suo personaggio sa “stare in barca”, e se in questo particolare caso facesse grazia al profano di un vocabolario meno specifico, forse non sbaglierebbe. Ma sa anche mischiarle, confonderle, giocare con esse. La figura del padre – un padre inaffidabile e incomprensibile, una sorta di Crono ironico e prigioniero di se stesso, forse delle proprie ossessioni, forse della propria irriducibilità – si confonde metaforicamente con quella di un misterioso dio nordico, ha la minacciosa imprevedibilità dell’iceberg, meravigliosamente bello, pericoloso e innocente.

Alla fine del viaggio e dell’avventura si tratterà magari di assolverlo, perdonarlo, questo padre; magari invertire i ruoli e trarne dalla dura scorza la figura di un figlio: di scoprire finalmente la sua timidezza. E benché nulla sembri accomunarli, questa soluzione narrativa avvicina Il passaggio, e non di poco, al romanzo breve di Alessandro Zaccuri, Lo spregio, uscito quasi in contemporanea per Marsilio: dove in tutt’altro contesto, sui monti di Como, un figlio si perde nel tentativo nevrotico di imitare, o meglio superare, il padre malavitoso.

zaccuri

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A Zaccuri interessa soprattutto la simbologia degli angeli (due statue di San Michele sono gli emblemi della perdizione del protagonista ma anche i motori della trama) che nel suo caso sembrano avere la stessa rilevanza metaforica degli iceberg in Grossi: astratti, indifferenti e letali. Ma è poi nel rapporto tra figlio e padre che si gioca tutto, come già era accaduto con Il signor figlio (Mondadori, 2007). Un padre divoratore e quindi uccisore fronteggia un figlio che, nella tensione a sbagliare più di lui come in una gara a oltranza, finisce per immolarsi inconsapevolmente, vittima di un’incomprensione culturale con una famiglia mafiosa: costringendolo così a una sorta di mesta redenzione.

Anche qui, nella figura del padre c’è qualcosa di incomprensibile agli occhi del figlio, un’assenza minacciosa che andrà, in qualche modo, anche per eccesso, metabolizzata. Ed è come se dall’uccidi il padre novecentesco e freudiano, magari con la mediazione di Saba (“Mio padre è stato per me ‘ ’assassino’;/ fino ai vent’anni che l’ho conosciuto./ Allora ho visto ch’egli era un bambino,/ e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto”) la narrativa di questo scorcio di anni ci chiedesse con insistenza di “ erdonare” proprio il suo essere padre, di riconciliarci con la sua intrinseca distruttività di iceberg, magari di angelo della morte, magari, infine, di enigma antropologico.


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Siamo al rientro in casa, quella casa da cui fuggirono, che so, Kafka o Svevo, e da cui fugge senza sosta cercando riparo alla propria nevrosi il Giuseppe Berto di Il male oscuro, appena riproposto da Neri Pozza? È probabile che una categoria del genere valga – anche se nel segno dell’ironia -, per l’ultimo Piperno di Dove la storia finisce (Mondadori), per Paolo Cognetti (Le otto montagne, Einaudi) o per Le cento vite di Nemesio di Marco Rossari (e/o), dove si tratta di aver ragione d’un padre troppo ricco di vita e di storia. Ma a differenza di Kafka, schiacciato come un insetto, o dello Svevo che nella Coscienza di Zeno riceve dal genitore moribondo il celeberrimo schiaffo, la figura paterna dei nostri autori trenta-quarantenni – o giù di lì – non è quella di un cupo, severo borghese benpensante; all’opposto, è più un solitario avventuroso, troppo avido di vita per non essere solitario, troppo simile, appunto, agli antichi figli ribelli.

pier vittorio tondelli

Si potrebbe parlare di un ritorno all’ordine, o come ha fatto di recente Paolo Di Paolo su Repubblica, di padri “costretti a lasciar cadere almeno la maschera sorridente, sorniona, ironica indossata troppo a lungo”; ma sono possibili altre opzioni, facilmente verificabili ad esempio tra pochi giorni, quando Bompiani manderà in libreria la nuova edizione di Camere separate (l’ultimo romanzo che ci ha lasciato Pier Vittorio Tondelli), a cura di Fulvio Panzeri.

Questi figli, è vero, ironici non sono. Spesso indulgono anzi alla seriosità e al disincanto. Saranno davvero le loro carte vincenti, e non una forma di estrema difesa da un contesto sociale a essi non troppo favorevole? Sogno occidentale o segno di stanchezza, dopo l’inganno della presunta fine della storia si profila l’utopia della cancellazione del conflitto.


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