Al Teatro Elfo di Milano, dal 28 marzo al 2 aprile, in scena “Riccardo III” (con Paolo Pierobon). La talentuosa regista ungherese Kriszta Székely riesce a tenere in equilibrio attualizzazione e forza imperitura del classico, lavorando su lingua e contesti, senza snaturare o indebolire la potenza shakespeariana

L’inverno del nostro scontento ha luogo ad alta quota (ed è sensibile alle quotazioni di borsa) in questa riscrittura shakespeariana di Ármin Szabó-Székely (nella traduzione di Tamara Török) per la regia di Kriszta Székely (classe 1982).

La talentuosa regista ungherese cala le trame nefaste e subdole di questo Riccardo III (prodotto dal Teatro Stabile di Torino, ERT e Teatro Stabile di Bolzano) fra le innevate vette (memore forse del Nido dell’Aquila hitleriano?) di una contemporaneità raggelante di iper-comunicazione e potere economico-mediatico.

Nello spazio bianco, neopuritano eppure infernale di questo chalet dal tetto spiovente, la morsa algida e i vertici siderali del comando somigliano a una messa (celebrata e violata) in onda, secondo gli stilemi dell’impero e le formule della manipolazione odierna, e lo spirito del Capitalismo e della Comunicazione (la diretta tv, la conferenza stampa, il party mediatico, il talk show, la riunione operativa, il set televisivo, fra spin doctor, gioco dei ruoli politici, portavoce, consiglieri e lacchè), tutto letteralmente dietro a uno schermo (velo e proiezione), su cui le brame, i complotti e le rappresentazioni del potere vengono messi in scena, si moltiplicano ed entrano in circolo, nell’etere rarefatto di un eterno ritorno.

Riccardo è allora, nella carismatica, grottesca ed efficace interpretazione di Paolo Pierobon, Al Capone e Tony Soprano, Keyser Söze e Frank Underworld, Gordon Gekko e Hannibal Lecter, un officiante bieco e sbilenco, un leader falsamente riluttante e subdolamente sanguinario, la cui natura deforme e proteiforme non è caricatura ma misto di fascino e di fascismo, di seduzione e sadismo, di posa mediatica e spietatezza senza posa.

In un crescendo di inabissarsi, la retorica e il non detto del Male miete le sue vittime in una foga distruttiva che accumula cadaveri frutto di carneficina sulla scena, in sacche obituarie impilate a latere, con un mood eccessivo e tragicomico per certi versi tarantiniano, ripulito però del sangue come da una vocazione dreyeriana (Carl Theodor) a ridurre, con spietato sguardo, la scena all’essenziale.

E il lavoro di pulizia sul testo shakespeariano, lungo, intricato e carico di personaggi, restituisce qui una trama leggibile, sfoltendo i caratteri e dandogli nitidezza e profondità, lasciando emergere, con sottile e sensato anacronismo, le figure femminili, vittime di un gioco al massacro maschile, del quale però sembrano (ap)prendere, prima o poi, regole, attitudini e visione, come suggerisce il finale, ironico e disincantato, ancor più perché siglato da una regista in voce di donna che progetta una pace fatta di armamenti.

Kriszta Székely riesce a tenere bene in equilibrio attualizzazione e forza imperitura del classico, lavorando su lingua e contesti, senza snaturare o indebolire la potenza shakespeariana, anzi mettendone in luce l’intelligenza veggente e la forza di adattamento, e riportando gli schemi del potere e della sopraffazione nella società dello spettacolo, dove shit storms e fake news son solo etichette à la page per ingiurie, calunnie e mistificazioni che il potere ha da sempre praticato e promette di praticare ancora a lungo, nonostante ogni illusione emancipatoria.

Visto al Teatro Carignano di Torino il 12 marzo. A Milano, al Teatro Elfo Puccini – Sala Shakespeare, dal 28 marzo al 2 aprile.

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