“Intendo uno ‘strano’, nel senso di ‘interessante’, ma il fatto è che nemmeno questa è la parola giusta. È qualcosa di parecchio impalpabile, letterariamente, ma altrettanto decisivo: ha davvero a che fare col nucleo profondo della scrittura, come avvicinare l’orecchio alla parete di una montagna” – Lo scrittore Stefano Sgambati, in libreria con “La bambina ovunque”, riflette sul significato della letteratura, attraverso le opere di Raymond Carver, Karl Ove Knausgård e Tom Clancy: “Serve un dettaglio in più, qualcosa che in un certo senso sia più reale del reale e che riesca a trasformare il ‘normale’ in ‘strano'”

Rendere “strano” il “normale”.

Mi ha sempre ossessionato questa cosa. Ne parlava Schopenhauer nei “Parerga e Paralipomena” a proposito di ciò che sarebbe lecito aspettarsi da uno scrittore.

Rendere “strano” il “normale”.

Non “strano” nel senso di “weird”, all’inglese, cioè come sottogenere della narrativa fantastica: niente Lewis Carroll, Lovecraft, o Vandermeer. Niente mondi meravigliosi o elementi bizzarri.

Intendo uno “strano”, nel senso di “interessante”, ma il fatto è che nemmeno questa è la parola giusta. È qualcosa di parecchio impalpabile, letterariamente, ma altrettanto decisivo: ha davvero a che fare col nucleo profondo della scrittura, come avvicinare l’orecchio alla parete di una montagna.

Flaubert era tipo il campione del mondo del “prendere il normale e trasformarlo in strano”. Jane Austen. Elenco lungo.

Più recentemente mi viene in mente Raymond Carver.

C’è quella scena sul divano, in Cattedrale, uno dei suoi racconti più celebri, non so se più belli: la moglie del protagonista mezza addormentata che senza accorgersene scopre le cosce e il marito che fa per coprirgliele. Serata complicata, lei ha voluto a tutti i costi ospitare un vecchio amico, un cieco, la cena sempre sul filo della tensione, con un senso di tragedia imminente a ogni riga. Dopo mangiato si mettono sul divano, lei si addormenta, scopre le cosce, nessuno parla, il marito sta per intervenire ma poi guarda il terzo incomodo e pensa: è cieco, che importa?

“Avrei voluto che mia moglie non fosse crollata in quel modo. Aveva la testa appoggiata allo schienale del divano ed era rimasta a bocca aperta. Si era girata in modo che la vestaglia le era scivolata sulle gambe, lasciando scoperta una coscia succulenta. Ho allungato un braccio per richiudergliela ed è stato a quel punto che ho dato un’occhiata al cieco. Al diavolo! Con un colpetto, le ho riaperto la vestaglia”.

Quel “colpetto” apre un mondo, narrativamente.

Perché in effetti è strano.

Fa deglutire e dire: ehi, aspetta un momento.

Siamo in un salotto, è tempo di pace, ci sono tre adulti che chiacchierano. Non ci sono avvisaglie di nulla, è una situazione normalissima. Però è anche strana.

Come fa questo a succedere?

*

Non ho ancora letto tutti e sei i volumi della biografia di Karl Ove Knausgård, La mia battaglia, perché, caspita, è una battaglia anche per il lettore.

Nel primo libro, La morte del padre, succede una cosa notevole: a un certo punto il protagonista-scrittore Karl Ove si trasferisce in un nuovo studio, nel centro di Stoccolma, per lavorare al suo secondo romanzo: non è facile, il foglio rimane bianco, e Karl Ove si barcamena tra giornate sempre identiche e una doppia insicurezza: quella letteraria – che cosa scrivere e come? – e quella più personale, un figlio in arrivo e i mille piccoli pensieri che ciò comporta. Nelle cinquanta-sessanta pagine successive succedono – le ho contate – tredici cose normali, ci sono cioè tredici momenti che narrativamente sembrano portare a qualcosa, a un climax, o a uno sviluppo qualsiasi, una risoluzione o un nuovo conflitto, tredici minuscole micce che l’autore accende e che poi magistralmente spegne, proprio quando cominciava a venire la voglia di abbassare i finestrini e godersi il vento.

Questa fase comincia così:

“Di colpo notai che a un paio di metri di distanza dalla sedia su cui sedevo, i nodi e le venature del legno formavano l’immagine di Cristo che aveva in capo una corona di spine“.

Subito dopo (seconda miccia) l’autore scrive: “Quella scoperta non mi fece nessun effetto“, poi dà il “la” per una digressione che conduce a un altro momento curioso: da bambino, Karl Ove vide un’immagine simile apparire sulla superficie del mare in occasione di un servizio del telegiornale che parlava di un peschereccio scomparso.

E quindi?

Niente.

Le righe successive sembrano portare con sé l’imminenza di un’epifania, di qualcosa. C’è la tentazione di fare due più due. Infatti (terzo momento) “proprio in quell’istante suonò il telefono. Sobbalzai. Nessuno conosceva quel numero. L’apparecchio squillò cinque volte prima di smettere. Il brusio del bollitore aumentò mentre pensavo, come mi accadeva spesso, che quel suono sembrava annunciare l’arrivo di qualcosa di imminente”.

Invece no.

La quarta cosa che succede è che il protagonista si versa il caffè in una tazza e poi esce in strada con questa tazza in mano. Ci siamo. È una scena troppo strana perché non porti a nulla: un tizio con una tazza di caffè fumante che cammina lungo un marciapiede.

Scrive Knausgård: “Sentii crescere in me un certo disagio nel vederla lì, la tazza faceva parte del mondo interno, non di quello esterno: fuori acquisiva un che di spoglio, come se fosse stata messa a nudo”.

Un’altra ventina di pagine in cui l’autore tira fuori dalla tasca il cellulare, senza usarlo (cinque), attraversa la strada facendo fermare un grosso camion (sei) che per un momento sembra doverlo investire, cosa che naturalmente non succede, fa ritorno nello studio per rileggere ciò che ha scritto e ciò che ha scritto non va bene (sette), quindi ha un’improvvisa intuizione, alza la testa dal foglio e (otto) “fu così che incrociai lo sguardo di una donna. Era seduta su un autobus, fermo in quel momento davanti alla finestra. Stava calando il crepuscolo e l’unica fonte di luce presente nella stanza era la lampada che si trovava sulla scrivania, che doveva attirare su di sé l’attenzione del mondo esterno come una falena. Quando si accorse che la stavo osservando, distolse lo sguardo”. Qui potrebbe esserci l’inizio di qualcosa, ma proprio in quel momento (nove) Karl Ove decide di tornare a casa dalla moglie. La camminata è raccontata con un’escalation emotiva importante – decine di micro-dettagli potenzialmente innescanti -, fino a un fatto davvero strambo, un incendio per la strada: ci vuole un po’ per capire che a prendere fuoco non è stato il suo appartamento (sono righe tuttavia avvincenti), poi anche questo episodio perde di mordente: “Rimasi ancora per qualche minuto, ma dal momento che avevo freddo e non sembrava dovesse succedere altro, proseguii verso casa”.

Dieci: notte insonne. Undici: risveglio turbolento animato da una nuova istanza di tensione, un’auto della polizia che fa irruzione in una palazzina prospiciente. Questa cosa occupa quasi quattro pagine: ogni riga ha il suono di un proiettile che entra in canna. Ma nessuna esplosione. Dodici, si risveglia anche la moglie, c’è una conversazione che accelera lentamente, sempre sul filo del disagio. Infine, tredici: Karl Ove esce nuovamente di casa, ci sono altre pagine splendide di splendido, elettrico nulla, fino a che l’autore non comincia l’ennesima digressione e noi, ormai avvezzi al meccanismo, evitiamo anche solo di cadere nel suo gioco, solo che stavolta qualcosa succede davvero, cioè si chiude un paragrafo e il successivo, dopo un’interlinea doppia, inizia così:

“Personalmente avevo quasi trent’anni quando vidi per la prima volta un corpo morto. Era l’estate del 1998, un pomeriggio di luglio, in una cappella a Kristiansand. Il defunto era mio padre“.

Siamo a pagina 264 di un libro intitolato La morte del padre, eppure niente, finora, è stato inutile e tale impresa all’autore è riuscita proprio in virtù della capacità somma di rendere “strano”, “stranissimo”, qualcosa che è ancora meno che “normale”: la noia, il pensare, lo scorrere del tempo.

Leggiamo, e qualcosa pare continuamente tremolare, come un vetro minacciato da un ultrasuono.

Come fa questo a succedere?

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Non conosco bene i libri di Tom Clancy.

Su Amazon Prime Video ho però guardato in un’immersione compulsiva da binge-watching l’omonima serie, trovandola davvero ben fatta. Non farò spoiler, ma c’è un dettaglio che ha a che fare con quanto sto cercando di esprimere: a un certo punto c’è un grande attacco terroristico a Parigi, una cosa molto credibile e terribile, gente chiusa dentro a una chiesa che muore soffocata da miasmi velenosi. Circa trecento morti, un po’ Charlie Hebdo, un po’ Bataclan: mi rendo conto che potrei sembrare cinico o freddo ma quello che vorrei dire è che una tragedia simile, dal punto di vista narrativo, è un’istanza piuttosto normale, se non banale, e di per sé poco mordace. Ce ne abbiamo di pelo sullo stomaco e ormai, per quanto la fiction possa spingere sul pedale del drammatico o del grottesco, la realtà è sempre, tragicamente, un passo avanti. Ecco perché serve un dettaglio in più, qualcosa che in un certo senso sia più reale del reale e che riesca a trasformare il “normale” in “strano”, e nel caso specifico di questa puntata di Jack Ryan il dettaglio arriva eccome: quando entrano i soccorritori, a tragedia avvenuta, e le forze speciali si fanno strada nella chiesa con l’unica (ormai) accortezza rimasta di non calpestare i cadaveri, ci accorgiamo piano piano di un particolare agghiacciante, e cioè che tutti o quasi tutti i corpi hanno il cellulare in mano e che tutti i cellulari stanno squillando a vuoto. C’è una chiesa oscura, con l’aria brumosa, ancora avvelenata, e centinaia di cadaveri con le facce sbarrate dal panico e dall’asfissia, ma ciò a cui facciamo veramente caso – ciò che atterrisce davvero – sono quei piccoli schermi illuminati.

È un dettaglio che fa venire voglia di abbracciare qualcuno e insieme ci ridicolizza nella morte.

Come fa questo a succedere?

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Quando cominciai a mettere insieme i pezzi per La bambina ovunque – mia figlia nata da pochissimi giorni -, avevo il terrore, letteralmente, di sbagliare ciò che stavo facendo. Smisi anche di leggere i libri che già esistevano sull’argomento: non mi interessavano, non avevano a che vedere col lavoro che avevo in testa, tuttavia proprio per effetto della loro distanza dal mio progetto potei capire meglio quale fosse la strada migliore.

Il tema, cioè, di quelle opere era preponderante su tutto il resto e il tema era la genitorialità, ovviamente, la genitorialità felice, la genitorialità in quanto tale.

L’essere padri, l’essere madri.

Erano, quei libri – e li rispetto, hanno piena dignità, ci mancherebbe -, l’equivalente di un attentato terroristico che ci viene mostrato com’è: senza cellulari che squillano in mano ai cadaveri. O di una cena in cui uno degli invitati non è cieco e non c’è alcun “colpetto” che riapre una vestaglia.

Erano letterali, non letterari.

E la letteratura – almeno quella che piace a me, quella che vorrei fare io – non è mai com’è.

Sempre Karl Ove Knausgård, ancora nella “Morte del padre”, scrive: “Tutto deve piegarsi alla forma. Se qualcuno degli altri elementi letterari è più forte della forma, per esempio lo stile, l’intreccio e il tema […] il risultato sarà debole”.

Una gravidanza o una paternità è il tema, quindi qualcosa di deperibile destinato a soccombere, uno scenario talmente d’abitudine e vasto e secondo me debole in quanto tale che se lasciato da solo, senza collare, nemmeno si lascia raccontare. Scappa, perdendosi nella vastità della pagina.

Ciò che interviene a fare la differenza è la forma.

Solo così può nascere la letteratura.

Spero di esserci riuscito.

La bambina ovunque - Stefano Sgambati

L’AUTORE – Stefano Sgambati è nato a Napoli nel 1980, ma ha sempre vissuto a Roma. Attualmente abita a Milano dove si occupa di letteratura, tv e giornalismo. Ha esordito in libreria nel 2011 con una raccolta di racconti, Il Paese bello (Intermezzi Editore); il suo primo romanzo è Gli eroi imperfetti (minimum fax, 2014). La bambina ovunque, uscito per Mondadori, è il suo quinto libro.

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