Dal 6 febbraio, su Rai1, arriva l’attesa terza stagione della serie “L’amica geniale”: protagonista della trama è “Storia di chi fugge e di chi resta”, il terzo volume della quadrilogia, che ci porta negli anni ’70, con le fabbriche in fiamme e la camorra usata contro gli scioperanti a San Giovanni a Teduccio, quando due amici delle protagoniste, Lila e Lenù, diventano terroristi. Ma che cosa furono davvero i ’70? Un decennio di violenza e terrore, o l’età dell’oro delle conquiste civili? E come la misteriosa scrittrice bestseller ha raccontato quel momento storico? Ne scrive su ilLibraio.it l’autrice di “La leggenda di Elena Ferrante”

Pronti a fare un tuffo negli anni ’70? Tra quelli che c’erano, qualcuno ancora scappa, qualcuno invece rimpiange. E i più giovani che cosa sanno? Storia di chi fugge e di chi resta, terza parte della quadrilogia napoletana di Elena Ferrante, e penultima stagione della serie televisiva dell’Amica geniale, sta per trascinarci laggiù.

Ecco dunque le ragazze geniali ormai trentenni attraversare la linea d’ombra dell’età adulta. Un passaggio che non corrisponde banalmente a una tappa della crescita: il matrimonio, la laurea o il lavoro, ma al primo brutale scontro con la vita. La linea d’ombra come primo vero disincanto, quello per cui nulla sarà più come prima. E dunque passa attraverso una separazione, un tradimento o una perdita.

Lila non è riuscita a costruire un amore con Nino Sarratore, l’uomo per cui ha lasciato suo marito, ha un figlio piccolo da mantenere,  ha perso tutto: precipita nella periferia industriale di San Giovanni a Teduccio, dove fa l’operaia in un salumificio in condizioni di lavoro pessime. Lenù si è laureata alla Scuola Normale di Pisa, sposa un collega ed entra in una facoltosa famiglia d’intellettuali, pubblica il primo romanzo grazie alle buone relazioni della suocera, cresce due bambine sprofondata nella solitudine casalinga di Firenze, dove si è trasferita col marito e dove sente d’aver perso se stessa. Finché…

I terribili/fervidi ’70 sono attraversati da un doppio sguardo femminile. Due ragazze che, rotto il guscio della femminilità tradizionale, vorrebbero andarsene in giro libere. Ma per quella loro libertà non c’è posto e intorno il mondo brucia. Vediamo Napoli grande città industriale e il lavoro femminile in fabbrica. Uno strano groviglio di emancipazione (finalmente denaro proprio in tasca) e pesanti servitù, con le mani cotte dal vapore per gli insaccati, in una faticosa promiscuità senza regole con i maschi, esposte a molestie neanche riconosciute come tali.

Storia di chi fugge e di chi resta elena ferrante

Vediamo la gioventù intellettuale in rivolta, che va allo scontro con l’establishment culturale, proclama la disobbedienza, vive nelle comuni e migra da una città all’altra. Lila governa a malapena gli attacchi di panico, fa l’apprendista sindacalista e scopre che l’azienda si serve dei camorristi per contrastare gli scioperi. Lenù invece constata che nelle comuni bisogna dimostrarsi sessualmente libere, anche quando non se ne ha voglia, e che i ragazzi  seminano figli di cui non si prendono cura. Fa l’apprendista femminista, legge i libri di Carla Lonzi, impara a sputare su Hegel.

Nessuna apologia, nessun disconoscimento. La finestra aperta su quel tempo da Elena Ferrante non censura nulla. Né la formidabile energia, la spinta talvolta selvaggia verso la ricerca di migliori condizioni di vita e maggiori libertà. Né le derive violente, l’avvento tragico del terrore. Anche a Napoli, nel 1975, nasce una banda armata (i Nap) e nel romanzo troviamo due ragazzi inghiottiti dal fascino sinistro del piombo.

I ’70 resteranno controversi, anni di fuoco e di tenebra, eppure segnati da cambiamenti importanti, che ci hanno reso più civili: la legge sul divorzio, lo statuto dei lavoratori, la chiusura dei manicomi…

Non conosco ancora la versione di Luchetti, il regista di questa stagione della serie, ma so che nel romanzo il bello è che un giudizio non c’è. Non c’è una visione postuma. Siamo dentro gli eventi, travolti dalla vita come Lenù e Lila. Il lettore è immerso in quel tempo e non sta a guardarlo da fuori, da un punto di vista successivo, sapendo come è andata a finire. Per un po’ pensa e sente come se fosse lì. Ferrante ha un suo modo di rendere presente il passato. A me, che sono andata in cerca della Napoli riflessa nei suoi romanzi, sembra di riconoscere  la coesistenza di epoche e tempi propria della partenosfera.

In Storia di chi fugge e di chi resta, ballata popolare di una generazione, si sente ancora palpitare la cronaca  di quei giorni. E con una tale precisione di dettagli da lasciar immaginare che lei, Elena, fosse proprio lì, nei salotti dell’élite intellettuale di sinistra o nelle grandi fabbriche oggi scomparse di San Giovanni a Teduccio.

Oppure che abbia liberamente attinto (beninteso, reinventandoli) ai racconti di chi c’era. La città che ne esce è rabbiosa e densa di conflitti, una Napoli che corre verso lo sviluppo, trascinandosi dietro il peso della corruzione e le ferite mai curate della miseria. Un tempo di urti violenti. Anche nei sentimenti. La storia si apre con il rovesciamento del combattuto patto di amicizia tra le ragazze. Non scriveranno più un romanzo insieme come sognavano da bambine. Solo una lo farà e l’altra le intima: “Non parlare di noi, non scrivere di me”.

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L’AUTRICE – Annamaria Guadagni vive tra Roma e il mare di Sperlonga. È una giornalista culturale, ha lavorato a lungo nell’editoria, collabora con il quotidiano Il Foglio. Ha curato raccolte di saggi e pubblicato un romanzo, L’ultima notte (1998). Per Garzanti ha pubblicato La leggenda di Elena Ferrante.

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