Dal lavoro alla famiglia (tra figli, partner e casa): la donna contemporanea “deve” incarnare una miriade di competenze. Non solo: c’è poi il confronto con l’immagine della “superdonna”, ammirata, che domina sui social, dietro cui, però, quasi sempre si nasconde una donna esausta. Il risultato? Ansia a bassa intensità, insonnia, mal di testa, stanchezza cronica, nervosismo. Gli psicologi parlano di “burnout materno”, ma sarebbe più corretto definirlo “burnout da superdonna obbligatoria”. Il lusso, oggi? Mollare qualcosa per strada, senza sensi di colpa… – La riflessione della scrittrice e filosofa Simonetta Tassinari

Un tempo c’era la “donna angelo del focolare”: la dolce creatura che custodiva la casa, cresceva i figli, e intanto manteneva la compostezza di una santa e l’energia di una lavastoviglie industriale. Sempre sorridente, paziente e inappuntabile come un centrino di pizzo stirato a dovere.

Certo, era un cliché soffocante, ma almeno aveva confini chiari: ti occupavi della casa, dei figli e della minestra, e il copione finiva lì.

Oggi, invece, il copione non finisce mai: la donna contemporanea deve incarnare una miriade di competenze, agire in cucina come una chef stellata, in palestra come un’istruttrice di fitness, in famiglia come Mary Poppins con master in pedagogia e, possibilmente, stage a Hogwarts.

Prendiamo il lavoro: non basta esserci, bisogna primeggiare, dimostrare di meritare quel posto che qualcuno ancora considera un favore concesso. Poi c’è la famiglia: i figli non vanno solo nutriti, ma stimolati con attività creative, meglio se in inglese, possibilmente mentre si costruisce un vulcano funzionante con bicarbonato e aceto. Il partner va ascoltato, sostenuto, motivato (perché, si sa, anche lui è stanco, anche se mai quanto te. Per di più, in casa, di norma, si rigira i pollici: tanto ci sei tu). La casa stessa deve sembrare in ordine senza sforzo – come se il pavimento si lucidasse da solo e il forno si riempisse da sé, magari con l’aiuto di folletti.

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Se poi riesce anche a mantenere un profilo social attraente e seguito, con foto scintillanti, le unghie glitterate e mai un capello fuori posto, tanto meglio, perché, come se tutto questo non bastasse, ci si mette pure il confronto con gli spazi digitali: su Instagram sfilano donne che alle sei del mattino hanno già fatto yoga, letto Guerra e Pace, preparato una spremuta energizzante, bio, in barattolo, con cannuccia di bambù, e risposto a qualche mail di lavoro, con l’incarnato fresco come rugiada e la cucina inondata dalla luce perfetta dell’alba: una luce che sembra scendere apposta per loro, come se l’universo intero fosse complice di tanta magnificenza. Guardandole, si rischia di pensare che l’impeccabilità non solo sia possibile, ma addirittura obbligatoria. Così, ogni deviazione diventa colpa: la pizza surgelata è un fallimento culinario, il figlio addormentato col tablet in mano una tragedia educativa, la giornata storta in ufficio una macchia indelebile sulla carriera.

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Peccato che questa sceneggiatura, più che un film di successo, sembri una maratona di puntate da guardare per forza, con la sensazione di non poter mai staccare. Dietro l’immagine della superdonna ammirata si nasconde quasi sempre una donna esausta, con occhiaie che nemmeno il correttore miracolo riesce più a domare, il cervello in modalità centrifuga perenne e il corpo che lancia SOS disperati. Perché non è tanto il “fare molto” a distruggere: è l’ordine scritto in piccolo sul contratto non firmato – fare tutto benissimo.

La trappola è sottile. L’uomo che lavora molto è lodato come “gran lavoratore”, anche se spesso non si occupa di nulla, a casa. La donna che lavora molto, invece, è giudicata in base a quello che non riesce a fare: il pranzo saltato, la recita scolastica mancata, l’amica trascurata, la palestra dimenticata. È come se la società applicasse alle donne un voto complessivo, che somma le performance in ogni settore. E nessuna, nemmeno la più organizzata delle manager, riesce a raggiungere un dieci pieno in tutte le caselle.

Il risultato? Ansia a bassa intensità, tipo colonna sonora di sottofondo, che però logora. Insonnia, mal di testa, stanchezza cronica, nervosismo come dopo dodici caffè a stomaco vuoto. Gli psicologi parlano di burnout materno, ma sarebbe più corretto definirlo burnout da superdonna obbligatoria.

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Eppure il problema non è l’incapacità: le donne hanno dimostrato ampiamente di avere risorse straordinarie, capacità organizzative e una lucidità che potrebbe gestire, nello stesso giorno, un matrimonio, un trasloco e un consiglio di amministrazione. Ma qui non è questione di talento: è la struttura sociale che zoppica. Le conquiste degli ultimi decenni, sul fronte del lavoro, della politica e della cultura, non hanno avuto un corrispettivo nel riequilibrio dei compiti domestici. Così il carico è raddoppiato: carriera più gestione della casa, non carriera invece di.

Il mito della superdonna, nato per dimostrare che “si può fare tutto”, si è trasformato in una gabbia dorata. Un uomo può eccellere in un campo e ignorarne altri; una donna no. Se non eccelle ovunque, viene giudicata due volte: come professionista mediocre e come madre manchevole.

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Insomma, il famoso glass ceiling – quel “soffitto di vetro” che impedisce alle donne di salire troppo in alto, pur restando invisibile, e che frena le loro carriere – non è più solo sopra la testa: ora ci sono anche i muri laterali, il pavimento e pure un paio di serrature a combinazione.

Forse la vera conquista, oggi, non è aggiungere un altro corso, un’altra competenza, un altro mattone sul curriculum già traboccante, ma togliere. Rivendicare il diritto di non essere perfette. Dire di no a una riunione. Lasciare che i figli cenino con un toast, senza sensi di colpa. Concedersi la pigrizia come terapia intensiva. Sono piccoli atti di ribellione quotidiana che valgono più di tanti discorsi: dire al mondo che il modello impossibile non ci interessa più.

La stanchezza della superdonna non è un difetto caratteriale, ma un segnale di allarme. È il corpo che dice: “così non funziona”. È la mente che urla: “basta, cambio canale”. Ascoltarlo significa rifiutare l’idea che il valore di una donna si misuri solo dalla sua capacità di tenere insieme mille vite diverse senza che si vedano crepe.

E se la società non fosse ancora pronta ad accettarlo? Pazienza. L’importante sarebbe che lo accettassero le donne stesse. Perché nessun cambiamento comincia senza consapevolezza: il prossimo potrebbe nascere da un’agenda lasciata volutamente incompleta, da un “no” detto col sorriso, da una polvere filosofica lasciata sui mobili come piccolo proclama.

Negli anni ’70 le femministe scandivano lo slogan “il personale è politico”. Tradotto: quello che accade tra le mura di casa non è una faccenda privata, ma una questione di equilibri e di potere. Non era solo una rivendicazione: era una svolta semantica. Dire “sono stanca di fare sempre io la lavatrice” non significava più soltanto lamentarsi con il partner distratto, ma denunciare un sistema intero che dava per scontato che quel compito spettasse a lei. Insomma, il bucato non era più solo bucato: diventava un atto di resistenza. E ogni piatto lasciato nel lavello non era trascuratezza, ma potenzialmente un manifesto.

La prossima stagione del femminile forse non passerà per altri traguardi da conquistare, piuttosto per il lusso di mollare qualcosa per strada. Non rispondere a tutte le mail. Restare in pigiama alle tre del pomeriggio come atto di libertà. Piccoli gesti simbolici: potrebbero ricordarci che la vita non è un concorso, che si è in gara solo con se stesse e che la vera forza, a volte, sta tutta in un “no” liberatorio.

Un “no” che non chiede scusa, e che restituisce -finalmente- la libertà di essere semplicemente umane.

L’AUTRICE –  Simonetta Tassinari ha insegnato storia e filosofia nei licei e nel laboratorio di didattica della filosofia dell’Università del Molise. Da anni coltiva la psicologia relazionale, l psicologia dell’età evolutiva, il counseling filosofico e divulga la filosofia tra bambini e ragazzi. Anima partecipati caffè filosofici e tiene conferenze in tutta Italia e all’estero. Collabora con la fondazione Quid+ e con Treccani Futura.

Ha pubblicato romanzitesti di argomento storico e filosofico (tra gli altri, per Einaudi scuola) e il saggio “brillante” – sull’insegnamento della filosofia nelle scuole – La sorella di Schopenhauer era una escort (Corbaccio). Con Corbaccio ha pubblicato anche Donna Fortuna e i suoi amoriLa casa di tutte le guerreLe donne dei Calabri di Montebello L’ultima estate in paese.

Per Feltrinelli ha pubblicato nel 2019 Il filosofo che c’è in te; S.O.S. filosofia. Le risposte dei filosofi ai ragazzi per affrontare le emergenze della vita, rivolto agli adolescenti; Il filosofo influencer. Togliersi i paraocchi e pensare con la propria testa (2020); per Gribaudo Instant Filosofia (2020) e Le 40 parole della filosofia (2021) e Il libro rosa della filosofia – Da Aspasia a Luce Irigaray, la storia mai raccontata del pensiero al femminile (2024). Il suo nuovo libro, uscito nel 2025, è Il bello tra le crepe – Manuale di riparazione della vita quotidiana.

Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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