“Noi quarantenni non siamo figli del dovere come i nostri genitori, ma siamo figli del potere, del se vuoi puoi. La valorizzazione dei sogni, dei desideri, delle passioni ci si è ritorta contro, noi siamo i figli dei boomer, i boomerang insomma”. In occasione dell’uscita del romanzo “Tutta la stanchezza del mondo”, su ilLibraio.it l’intervento della scrittrice Enrica Tesio. “Abbiamo scoperto che la libertà di essere chi vuoi, di fare ciò che vuoi, è una prigionia senza fine. Dove se non ce la fai è colpa tua, se ce la fai purtroppo non ce la fai mai abbastanza. E così siamo stanchi perché non sentiamo mai davvero di meritare il riposo…”

Ultimamente ho letto un post molto condiviso dove si diceva che ribellarsi viene dal latino re-bellum, letteralmente tornare al bello. Il latino è una lingua morta e infatti li potete sentire chiaramente i romani che si rigirano nelle tombe come kebab. Bellum è battaglia, guerra, conflitto, altrimenti il De bello gallico sarebbe un libro su un’estetista francese.

Faccio questo preambolo per dire che inizierò la mia dissertazione sulla stanchezza partendo da un’etimologia verificata e non fantascientifica. Stanco e stagno hanno la stessa radice. Chissà che trovata geniale, direte voi, chi è stanco sta fermo così come è ferma l’acqua dello stagno. Invece per me quelle due parole vicine, collegate, sono una vera epifania perché definiscono lo stato d’animo dominante in questo periodo storico: una stanchezza paludosa, stagnante, endemica e impossibile da estinguere né bonificare.

Se la stanchezza dell’attività è positiva, disarma quindi porta alla pace e alla comunione, la stanchezza dell’immobilità è negativa, porta alla confusione, alla dispersione e all’isolamento. Noi non siamo stanchi per (per aver lavorato tanto, per aver fatto una bella corsa, per aver cullato un bambino che non voleva dormire), ma siamo stanchi di (di sentire le stesse cose, di avere paura, dell’incertezza). Un nuovo slittamento lessicale che però fa la differenza.

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Mi domando quando è iniziato tutto questo, dove, perché. Cerco le risposte nel saggio di Byung-Chul Han La società della stanchezza. Riassumo a braccio quello che ho capito, pur premettendo che ai tempi del liceo ero più brava in latino che in filosofia. Noi quarantenni non siamo figli del dovere come i nostri genitori, ma siamo figli del potere, del se vuoi puoi, in quella che l’autore chiama la società del rendimento. La valorizzazione dei sogni, dei desideri, delle passioni ci si è ritorta contro, noi siamo i figli dei boomer, i boomerang insomma. Sii il giardiniere del tuo giardino interiore, ci hanno detto, lo scrittore della tua storia, il guerriero della tua battaglia, il sindacato dei tuoi scioperi, lo stacanovista dei tuoi giorni festivi, il capro espiatorio del tuo ego, l’alunno dei tuoi insegnamenti, il professore della tua materia preferita, cioè te stesso. In pratica, sii capo ma soprattutto schiavo, pensando però di avere piena autorità, di potere tutto.

Abbiamo scoperto che la libertà di essere chi vuoi, di fare ciò che vuoi, è una prigionia senza fine. Dove se non ce la fai è colpa tua, se ce la fai purtroppo non ce la fai mai abbastanza. E così siamo stanchi perché non sentiamo mai davvero di meritare il riposo.

Come se non bastasse è arrivata la pandemia che ha mescolato tutti i piani, ha confuso spazi e tempi. Cerchiamo un po’ di distrazione perché siamo affaticati e quindi controlliamo i social, mentre lavoriamo in smart working, pianificando il pranzo, ma più ci distraiamo più facciamo fatica, più ci stanchiamo. Confondiamo riposo e distrazione. Così c’è sempre un rumore di fondo che si accavalla a un altro rumore di fondo a un altro rumore di fondo e non è più chiaro l’ordine di priorità né se ci sia un fondo da toccare per dare la pedata e risalire.

Penso a quando Marta e Lorenzo, i miei figli più grandi, erano neonati, accadeva che dovessi aver cura di loro e mi venivano alla mente mille parole da scrivere, simili alle illuminazioni che ti colgono in sonno appena prima del risveglio. Desideravo mollare tutto per mettermi a pensare, a elaborare, ma non potevo, così rimandavo alla sera. Ma quando dormivano e io restavo sola, quando c’era il tempo, allora mancavano le parole, non rispondevano al comando e io desideravo solo sdraiarmi con i miei figli e dormire.

Questo esserci nell’assenza e questo non esserci nella presenza è stata per anni la fonte della mia stanchezza. Erano tempi in cui mi dicevo che Dio era Padre e non Madre perché il settimo giorno lui si era riposato e io no. Una battuta che ora rivedrei, adesso mi pare chiaro che il settimo giorno Dio non si è fermato perché era stanco, ma per contemplare quello che di buono aveva fatto. E forse è quello ciò che ci dobbiamo concedere. Fermarsi e respirare, contemplare il buono, perché il buono c’è sempre. Come si contempla il fuoco in un camino, la polvere nella luce, la vita in un bambino.

enrica tesio nella foto di Giorgio Violino

L’AUTRICE Enrica Tesio (nella foto di Giorgio Violino) è blogger e scrittrice, ha tre figli e un mutuo inestinguibile. Fa la copywriter da quando aveva vent’anni. Nel 2015 ha pubblicato per Mondadori La verità, vi spiego, sull’amore, dal quale è stato tratto un film con la regia di Max Croci. Nel 2017 è uscito per Bompiani Dodici ricordi e un segreto. Nel 2019 ha pubblicato per Giunti Filastorta d’amore. Rime fragili per donne resistenti, che è diventato uno spettacolo teatrale.

Arriva ora in libreria sempre per Bompiani Tutta la stanchezza del mondo – Diario delle mie fatiche, un viaggio sorridente attraverso dodici fatiche, come quelle di Ercole: quelle che ogni sera ci fanno dire “sai che c’è? Io lascio” e poi no, non molliamo.

La trama ci porta al 28 febbraio 2013, nel cuore di una serata di ordinario delirio tra figli piccoli, lavoro arretrato e incombenze domestiche. La protagonista di questo libro ha ricevuto dalla tv una notizia stupefacente: il papa si era dimesso. Non era malato, non era in crisi spirituale: era afflitto dalla patologia del secolo, la stanchezza. E lei si è sentita “parte di qualcosa di grande e insieme sola in modo assoluto”. Perché no, noi non possiamo dimetterci. Noi siamo il popolo del multitasking che diventa multistanching, siamo quelli che in ogni istante libero “scrollano” pagine social per misurare le vite degli altri, quelli che riempiono di impegni il tempo dei figli per il terrore di non stimolarli abbastanza, quelli che di giorno si portano il computer in salotto per lavorare e la sera in camera da letto per guardare una serie ma intanto rispondere all’ultima mail… quelli che, per riposarsi, si devono concentrare…

Fotografia header: Getty editorial gennaio 2022

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