La famiglia della futura scrittrice Tara Westover abbraccia il Mormonesimo nella versione più rigida. A dominare l’infanzia dell’autrice de “L’educazione”, paura e odio virulento verso i “diversi”. Come sottolinea su ilLibraio.it Violetta Bellocchio, il libro va a inserirsi in un filone sempreverde, quello dedicato agli adulti orribili, meglio se genitori, e ai giovani che riescono a scivolargli via tra le dita. E arriva in un momento di elevatissima speculazione verso tutto quanto si può etichettare come una “setta”…

La futura scrittrice Tara Westover nasce, cresce e quasi muore in un micidiale crogiolo tra fede, superstizione e marginalità voluta: la sua famiglia abbraccia il Mormonesimo nella versione più rigida, poi ci aggiunge le credenze apocalittiche mal assimilate dagli estratti della Bibbia scelti a casaccio, il culto della sopravvivenza a 360 gradi, l’equazione “donne libere = sgualdrine” e la supremazia di un padre determinato a bruciare il mondo pur di dimostrare che ha ragione lui. A dominare le vite dei piccoli Westover c’è, soprattutto, la paura. Una forma di odio virulento verso chiunque non sia identico a loro. Le forze dell’ordine? Potrebbero aver fatto irruzione in un ranch non troppo distante. Il governo americano? Esiste soltanto per controllare i cittadini. La famiglia si trincera dietro la bandiera della libertà religiosa – molto al di là dei precetti Mormoni – e pratica l’isolamento quasi integrale. Le medicine sono bandite, i nuovi nati non vengono registrati all’anagrafe. Eppure da questo delirio domestico riesce a spuntare lei, Tara: una ragazza che sviluppa le sue forze intellettuali forse proprio perché ha imparato a non contare sull’aiuto di nessuno, e si emancipa, alla fine, se pur a caro prezzo, tagliando i traguardi desiderabili agli occhi dei coetanei. L’indipendenza, la relativa affermazione, il piacere anche nei consumi culturali. Un libro di memorie, per dare ordine al passato.

Ma i conti non tornano. Non tutti, almeno.

L'educazione

L’educazione si va a inserire in un filone sempreverde, quello dedicato agli adulti orribili, meglio se genitori, e ai giovani che riescono a scivolargli via tra le dita. Lo scettro lo tiene ancora saldamente in pugno Paul Theroux con Mosquito Coast, e la palma della nonfiction da leggere con una mano davanti agli occhi continua ad averla Il castello di vetro, però ci andiamo vicini.

In più, questo libro arriva in un momento di elevatissima speculazione verso tutto quanto si può etichettare come una setta, anche se qui la componente anarco-freak ad alto tasso di manie persecutorie ha molto più peso sullo scorrere delle vicende rispetto alla fede in un Dio punitivo. E dentro c’è un po’ di tutto: le soluzioni estreme adottate per fronteggiare una vita indipendente (in Italia le conosciamo attraverso i reality in onda sui canali digitali), l’autorità maschile esercitata con il piglio del guru fai da te (proprio quando tutti di colpo scoprono Osho grazie a Netflix), la possibilità di essere venduti, almeno negli Stati Uniti, come “una classica storia di coraggio e resilienza”, anche perché gli orrori subiti dalla narratrice prendono tinte via via più marcate – un fratello, Shawn, arriva a sembrare peggiore di chi l’ha generato. Ed è chiaro che dopo l’uscita di un memoriale simile non ci si aspettava di mantenere alcun rapporto con l’ambiente di partenza, quindi abbiamo pure quel lieve alone di terra bruciata che può sedurre il pubblico esigente.

Adesso arriva il bello.

La Tara Westover di oggi è una ricercatrice trentenne che scrive animata dallo stesso spirito che le ha avvelenato l’infanzia, e un po’ lo ammette. “L’ispirazione è un mito”, dichiara, e i risultati migliori, anche sul piano delle scelte lessicali, sono frutto di disciplina e duro lavoro; sostiene di aver imparato a scrivere racconti ascoltando il podcast del New Yorker dedicato all’analisi della forma breve. Nonostante le residenze nelle migliori università del pianeta (Oxford, Harvard, Cambridge), Westover sarebbe quindi un esempio di autrice autarchica, formata grazie alla curiosità e alla voglia di produrre, di mettersi alla prova. Si nota. La disciplina sta nel metodo con cui episodi altrimenti ordinari vengono fatti risuonare nel testo (l’installazione di una linea telefonica in casa quando la madre, per guadagnare soldi extra, diventa levatrice); l’astuzia sta nel creare un’escalation sulla figura paterna, che da un certo punto in avanti smette di essere un matto ingenuo, colpevole di aver parecchio sopravvalutato le sue competenze, e diventa un sinistro figuro capace soltanto di far fare ai propri discendenti una giovinezza assai più livida di quella toccata a lui. (Ci resta deluso quando il mondo non finisce con il 2000, per dire.)

L’ovvio limite di questa intelligenza narrativa è che si finisce a parlare della trama e non dello stile. Forse perché dello stile, in senso stretto, non c’è tanto da dire. Westover ha una scrittura accessibile e piana, ben tradotta da Silvia Rota Sperti, più preoccupata di reggere la misura del libro lungo che di incidere la pagina con frasi memorabili. È una scelta funzionale.

Sulla legittimità della storia narrata sono state sollevate le prevedibili obiezioni da parte della famiglia Westover, che ha infranto il silenzio per far sapere tramite un quotidiano locale (ora inaccessibile dall’Europa) quanto fosse diverso il clima rispetto al teatrino allestito nel libro. Del resto, è difficile pensare che un’accademica con un percorso avviato rischi di buttare all’aria la stabilità e la credibilità per rifilare una storiella triste a un gruppo di lettori professionisti che avrebbero potuto risponderle con pacata indifferenza, non trasformandola in un piccolo fenomeno.

E va precisato che editor e fact checker americani sono diventati – in media – molto più cauti rispetto a un periodo oggi remoto, i tardi anni ’90, in cui decine di testi spacciati per autobiografia purissima venivano poi smontati dopo la pubblicazione, da Augusten Burroughs e la sua infanzia schifa a Margaret B. Jones che venne ritirata di gran carriera dalle librerie passando per il falso galeotto James Frey. Ma persino chi se l’è cavata, come l’umorista David Sedaris, è stato confutato punto per punto. Tutti autori, guarda caso, che voltavano a proprio vantaggio l’aver attraversato esperienze esistenziali durissime, massacranti, fuori dal comune. Indicibili. Però, presto o tardi, il modo di raccontarle saltava fuori. Va sempre così.

 

L’AUTRICE – Scrittrice, traduttrice e giornalista, Violetta Bellocchio (nella foto di Valentina Vasi) è l’autrice del memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014). Ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015) e di un’altra antologia, Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos, 2016), curata da Paolo Nori. A sua volta ha curato l’antologia di nonfiction Quello che hai amato. (Utet, 2015). Il suo ultimo romanzo è Mi chiamo Sara, vuol dire principessa (Marsilio). È in uscita per Chiarelettere, nella collana Altrove, La festa nera.
Bellocchio ha inoltre fondato la rivista online Abbiamo le prove nel 2013, e l’ha seguita personalmente fino al 2016.
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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