Con “Terraforming” si intende il processo ipotetico attraverso il quale trasformare gli ecosistemi di pianeti o satelliti per creare le condizioni simili alla vita sulla terra. È uno dei temi classici della fantascienza, che il disastro climatico e la pandemia hanno reso di stretta attualità. Come cambierebbe il nostro modo di guardare il pianeta se considerassimo proprio la Terra come un pianeta alieno? Se lo sono chiesti allo Strelka Institute di Mosca, dove un think thank diretto da Benjamin Bratton, in questo modo, prova a immaginare scenari diversi e radicali in materia di ecologia – L’approfondimento

Fare una passeggiata, fantascienza. Orge gargantuesche con centinai di corpi nudi e pixelati, consumate nel pieno rispetto del distanziamento sociale, realtà. Strette di mano, fantascienza. Sindaci dronisti che con voce metallica insultano i passanti, realtà. Salutare la tua mamma, fantascienza. Dispositivi antivirali per far pisciare gli animali da affezione, realtà. Stringimi forte, fantascienza. In una San Pietro spettrale, il Papa, solo, condona l’anima a tutti, realtà.

Non è l’assurdo che galoppa come d’abitudine nel perimetro della tragedia, né la weirdness percepita che, logaritmica, si attesta fuori scala: che la realtà superi la finzione è una massima svuotata dall’inadeguatezza a descrivere la vita quotidiana di un anno che ha la forma di una ferita, di una violenza o di una vendetta. Realtà e fantascienza si sono date il cambio e le polarità si sono invertite; la fantascienza è il volto sbigottito del nuovo realismo.

Se lo spazio mentale della quarantena – sostiene Mark O’Connel sul New Stasesman –  cade internamente nella giurisdizione dei paesaggi psichici ballardiani, le immagini del fuori attraversano una faglia concettuale: c‘è chi vede nelle serrande abbassate il sole dell’avvenire o nei pavoni che danzano agli incroci la promessa di un futuro più umano, ma anche chi, al contrario, pensa che raccontino qualcosa di solo vagamente terrestre.

Le regole di biocontenimento (“simili a quelli che ci servirebbero per esplorare Marte” – Simone Cosimi su Esquire), il fuori come uno sterminato agente patogeno, le funzioni delle città ridotte a cibo, medicina, comunicazioni (“non diversamente dalle stazioni lunari”, Benjamin Bratton), gli esseri umani come un dispositivo di trasmissione biologica, il picco, la curva importano sulla terra la grammatica sublunare dei corpi celesti.

In una delle foto più iconiche della pandemia, tarato il ridicolo, è impossibile non sovrapporre ai quod i rover, la terra rossa alla sabbia. Ballard incontra Kim Stanley Robinson. Infatti, il più famoso autore della trilogia sulla colonizzazione di Marte viene scelto dal New Yorker per ragionare del dopo. E lo fa ballardianamente, concentrandosi sull’inner space: il cambiamento più profondo gli sembra “astratto e interno” – sostiene – “il virus sta riscrivendo la nostra immaginazione”.

terraforming

Lo sanno bene in Russia, dove guardare la terra dallo spazio ha una storia quantomeno stratificata (“La terra è azzurra. Il cielo è nero. Tutto si vede molto chiaramente”, disse Gagarin). Infatti a Mosca, allo Strelka Insitute, da gennaio si tiene un programma interdisciplinare, una specie di think thank che si avvale della presenza di ospiti internazionali (Nick Srnicek, Helen Hester, il collettivo di designer Metahaven, nonché Kim Stanley Robinson, i più noti in Italia), che prova ad adottare la prospettiva speculativa dello spazio per riformulare la sfida del disastro climatico. Il focus è sulle città: quali sono le implicazioni tecniche, filosofiche ed ecologiche di reimmaginare diversamente l’infrastruttura che regge la vita umana sul pianeta terra?

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É tenuto da Benjamin Bratton, sociologo e teorico di architettura e design, già autore di The Stack (MIT press), un volume in cui critica il modo in cui intendiamo la geopolitica globale. Il paradigma westafaliano fondato sullo stato-nazione non darebbe più conto della realtà dei rapporti in campo, al suo posto ci sarebbe una megastruttura accidentale, formata dai diversi livelli di sovranità che si intersecano. Il suo saggio più recente, invece, The Terraforming è una specie di manifesto del corso e implicitamente una prospettiva diversa e radicale in materia di ecologia.

Benjamin Bratton,

Con Terraforming si intende il processo ipotetico, tipico della fantascienza della golden age, attraverso il quale trasformare gli ecosistemi di pianeti e satelliti per creare condizioni simili alla vita sulla terra. La nozione, però, è usata in modo provocatorio, per indicare quanto accade qui e ora. É possibile – in pratica – una planetarietà diversa da quella attuale?

Bratton considera un processo di terraformazione inevitabile. Il fatto che un battito d’ali di pipistrello a Wuhan devasti i polmoni della Lombardia ne è la dimostrazione più evidente. Qualsiasi cosa facciamo, non importa cosa, ha un effetto di scala planetaria. Il Terraforming non è un processo opzionale, ma una relazione che si instaura per il semplice fatto di essere su un pianeta. L’Antropocene, in questo senso, è un processo di terraformazione accidentale che non ha coscienza di essere tale (“headless”) e dunque la domanda non è se vogliamo trattare la terra come Marte, ma in quale modo vogliamo farlo.

L’etere concettuale su cui si fonda gran parte del discorso ecologico si serve di un’immagine del mondo sedimentata, di nozioni e di famiglie di concetti che si trascinano un’ontologia e una teleologia all’interno del quale muoversi. Le nozioni di natura e cultura, di naturale e artificiale, la forza vitale della natura, l’eccezionalità dell’attività umana sono un mitologia inconscia collettiva che racconta di un equilibrio naturale perturbato da agenti umani: limitarne l’impatto sarebbe l’unica salvezza; per questo che un mondo svuotato della presenza umana per qualcuno sa di un futuro migliore.

In gran parte è vero, e qualsiasi obiezione al centro discorsivo rischierebbe di prestare il fianco a negazionismi pericolosi quanto assurdi, ma la complessità dei fenomeni e la loro urgenza richiede la verifica delle periferie.

Bratton è critico. In larga parte ne nega i fondamentali (“la differenza tra natura e cultura non protegge quanto chiama natura, anche se lo eleva a ideale trascendetale”) o tenta di riformularli (“l’artificiale non rimanda alla differenza tra falso e autentico, ma è un’anomalia regolare: è l’ordine che eccede quello che ci si potrebbe aspettare senza un intervento deliberato”, l’automazione, invece, non sarebbe il trasferimento sintetico dell’agency umana in sistemi tecnici esterni, ma la proprietà generale attraverso la quale azioni e astrazioni sono codificate in trasmettitori complessi e adattivi.). Infatti, “che la risposta al cambiamento climatico sia necessariamente e ovviamente l’opposto simmetrico della sua causa (per esempio, se l’industrializzazione causa il cambiamento climatico, la deindustrializzazione lo risolverebbe)” sostiene sia una teleologia fragile: “la confusione tra cause ed effetti e la corrispondenza tra mezzi e fini rischia di essere un’illusione paralizzante”.

Adottare una prospettiva provocatoriamente fantascientifica conduce all’incirca all’opposto, Bratton propone nientemeno che una specie di automatizzata ecologia planetaria. La risposta a un cambiamento antropogenico dev’essere ugualmente antropogenica: “Il fine di una geopolitica che sembri una geotecnologia e viceversa è la pianificazione e la governance di cascate trofiche automatiche. Questo è il modo in cui appare la mitigazione del cambiamento climatico”.

“Il piano è per una planetarietà artificiale alternativa, una che sia geografica perché sia geopolitica e geoeconomica perché geotecnica. La planetarietà include la tecnosfera e tutta la sua artificialità, non quello che rimane sottraendo tutto questo da un terreno metafisico”.

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Abbiamo le risorse tecnologiche per qualcosa di simile? Manco per scherzo, ovviamente. Ma ci manca anche tutto il resto: per Adam Arvidsson, che ha parlato di terraforming su Che fare, mancano sopratutto “i meccanismi sociali di coordinamento e di decisione collettiva”, quindi mancherebbe un intero apparato culturale capace di crearne le condizioni di esistenza.

Il rischio sembra quello di un’oggettiva insensatezza, ma è anche vero che la realtà non aspetta (a Strelka hanno già lanciato la Quarantinologia). La pandemia globale, la cui causa assente, al netto del 5G o di esperimenti finiti male, sta più probabilmente nella somma delle parti che crea la complessità sistemica del pianeta, cioè nel fatto che le medesime ragioni alla base del climatico favoriscono i salti di specie dei virus, ci ha infilato da un giorno all’altro nel più grande esperimento mai creato di mitigazione degli effetti del disastro climatico. Con più della metà degli abitanti del mondo in quarantena, il rimosso dei cieli svuotati di turbolenze, degli animali che si riprendono le città è che semplicemente non basterebbe: spiace dirlo ma l’esperimento sembra fallito, dovremmo ridurre le emissioni globabli del 7,6% su base annua, nonostante il lockdown, le stime attuali si attestano tra il 4 e il 5,5%.

A guardarsi in giro dicono sia evidente essere nel bel mezzo di una soglia storica la cui unica certezza è che niente sarà più come prima. La spirale aggrovigliata con cui l’assolutamente tragico, il fantascientifico e l’assurdo danzano come i pavoni ai semafori riscrivendo, come dice Robinson, la nostra immaginazione, rende le ipotesi fantascientifiche il nuovo normale. Ballard diceva che la terra è l’unico pianeta alieno: dal capire cosa significhi, da come un’ipotesi simile possa riformulare il modo in cui osserviamo il mondo e noi stessi, naturalmente, passerà giusto il futuro della specie, vabbé.

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