L’ultima opera del filosofo, psicoanalista e docente Umberto Galimberti può essere considerata il “lavoro di una vita”. L’autore ne parla in un’intervista a tutto campo con ilLibraio.it: “L’etica del viandante è un’etica nuova, necessaria, perché nell’età della tecnica tutte le etiche dell’Occidente sono implose. Come fa l’etica a dire alla tecnica di non fare ciò che può? Tutte le etiche che abbiamo formulato, che sono etiche antropologiche in quanto mettono l’uomo al centro dell’universo, non funzionano più…”. Per il saggista “abbiamo perso il senso del limite che avevano i greci”. E ancora: “Noi riempiamo le scuole di computer, quando è la letteratura che ci insegna cosa sono il dolore e l’amore, la gioia e la speranza. Se queste cose non si hanno in testa quando si affronta l’angoscia, non ci si può salvare…”. Tanti i temi affrontati, dall’intelligenza artificiale al dibattito sui migranti

Può essere considerata – e alcuni critici lo hanno fattocome la summa del suo pensiero, il “lavoro di una vita”. L’etica del viandante (Feltrinelli) è l’ultima opera del filosofo, psicoanalista e docente Umberto Galimberti.

Torna al centro della sua argomentazione l’età della tecnica secondo cui la storia non è più iscritta in un fine – e di cui aveva parlato in Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica (1998) e La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica (2009). E lo fa per compiere letteralmente un passo ulteriore.

Quello di proporre una nuova etica, l’unica possibile in un mondo che ha perso l’incanto degli antichi – del tempo ciclico dei greci e di quello escatologico della tradizione giudaico-cristiana – e dei moderni, con la loro fede nell’Umanesimo della scienza e del progresso.

Ecco che la figura del viandante, colui che non ha una destinazione, a differenza del viaggiatore, che attraversa la terra senza possederla, si fa portavoce di un’etica planetaria e cosmopolita che risponde all’imperativo ecologico. Al centro non ci sono più né l’uomo, né lo Stato con i suoi confini. C’è la vita e una comunione fraterna con l’altro da sé: uomo, animale o pianta che sia. Il nomadismo del viandante non va tuttavia inteso come anarchica erranza. È un abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso.

Un senso che il nazismo, da un lato, e l’atomica dall’altro, avevano spazzato via secondo quanto sostenuto dal filosofo argentino Miguel Benasayag: “‘Chi pensa bene pensa il bene,’ diceva la Modernità. Dopo la Seconda guerra mondiale, questa frase perde tutto il senso che aveva. Con il fenomeno del nazismo e la programmazione della Shoah si è assistito, infatti, alla possibilità di pensare – anche in modo eccellente – il male. La speranza nella ragione che doveva, se ben utilizzata, condurre al ‘bene’ è stata confutata dai fatti e non ha più senso di esistere”.

Il dibattito scaturito dal biopic di Christopher Nolan sul padre dell’atomica, Oppenheimer, così come gli interrogativi sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale o l’irrisolta questione migratoria trovano spazio in questo saggio, che è un invito ad esporci all’insolito. E a non averne paura. Come testimonia Umberto Galimberti in questa intervista per ilLibraio.it.

L'etica del viandante umberto galimberti

Professor Galimberti, l’etica del viandante parte da Nietzsche, dalla distinzione tra viandante e viaggiatore.
“L’etica del viandante è un’etica nuova, necessaria, perché nell’età della tecnica tutte le etiche dell’Occidente sono implose. Come fa l’etica a dire alla tecnica di non fare ciò che può? Tutte le etiche che abbiamo formulato, che sono etiche antropologiche in quanto mettono l’uomo al centro dell’universo, non funzionano più”.

Se l’uomo non è più al centro, cosa lo è?
“Occorre proporre un’etica biocentrica, dal greco bios che significa vita. La vita c’era prima dell’uomo e ci sarà dopo la sua scomparsa. E se la specie è ciò che unifica etnie, tribù, popolazioni, la specie deve salvare la terra che è l’unica nostra patria, molto prima della patria nativa”.

Al punto da abbandonare il concetto stesso di Stato.
“Assolutamente sì, perché per fare un’etica planetaria è necessaria la soppressione degli Stati perché lo Stato stabilisce la pace all’interno dei suoi confini, mentre aldilà dei suoi confini tollera la guerra. D’altronde tecnica e mercato, con il loro carattere transnazionale, hanno già abbandonato l’idea di Stato, che ormai sembra esistere unicamente per difenderci dai disperati della terra”.

E lei a questa logica contrappone quella della fratellanza.
“Per fare un’etica collettiva va ripreso il concetto di fraternità. La Rivoluzione francese aveva professato liberté, égalité, fraternité. Con la liberté abbiamo dato vita alla cultura liberaldemocratica, con l’égalité a quella socialdemocratica, la fraternité si è persa per strada”.

Come recuperarla?
“Le ferite della terra ci collocano come membri della specie e non come membri dello Stato. E allora alla ragion di Stato si deve sostituire la ragione dell’umanità. Una ragione che non può essere raggiunta sulla base dei valori, perché i valori dividono le popolazioni”.

E su che base?
“Dovremmo farlo sulla base dell’interesse, perché sul piano dell’interesse è possibile la mediazione. Per questo è essenziale fare un passaggio, un’evoluzione: come l’uomo ha fatto un’evoluzione biologica, a differenza dell’animale, così può fare anche un’evoluzione culturale”.

In che modo?
“Come la logica del nemico è riuscita a passare dalla clava alla bomba atomica, così un’evoluzione in direzione della fratellanza può creare un’etica nuova che deve comprendere, però, anche i diritti della natura. Il modello è quello di San Francesco che diceva ‘Fratello sole, sorella luna’. Perché i diritti dell’uomo separati da quelli della natura diventano a loro volta un elemento distruttivo”.

Ha parlato dell’atomica, al centro del film di Nolan Oppenheimer, tratto da un libro che ha come titolo originale Prometeo americano. Un Prometeo scatenato direbbe lei.
“Abbiamo perso il senso del limite che avevano i greci. Loro Prometeo l’avevano incatenato, noi l’abbiamo scatenato. Ma come diceva la sapienza greca, ‘chi non conosce il proprio limite, tema il destino’. Il nostro destino è che stiamo distruggendo la terra”.

Quale può essere il ruolo della letteratura e dell’arte in questo scenario?
“L’arte e la letteratura sono tutte volontà di potenza deboli rispetto alla tecnica, che rappresenta la volontà di potenza forte. Sembra non abbiano rilevanza. La letteratura serve a educare i nostri sentimenti, che è già una cosa buona. Noi riempiamo le scuole di computer, quando è la letteratura che ci insegna cosa sono il dolore e l’amore, la gioia e la speranza. Se queste cose non si hanno in testa quando si affronta l’angoscia, non ci si può salvare”.

Anche la libertà è sempre legata alla tecnica, ne è vincolata.
“Non credo nella libertà. Sono un determinista duro, come i greci. Esiste però l’illusione, l’idea di libertà. E le idee spesso creano più incognite di quanto non facciano le cose. Ma la libertà non esiste per una semplice ragione: confligge con la nostra identità”.

Come?
“Le faccio un esempio. Jean Paul Sartre un giorno andò in montagna, si ruppe una gamba e finì in ospedale. Andò a trovarlo un altro filosofo, Maurice Merleau-Ponty che gli domandò perché non avesse chiesto ad una guida di accompagnarlo. Sartre gli rispose: ‘Io? Non ho bisogno di andare in montagna con una guida’. Ecco l’identità. (Ride, ndr)”.

E la necessità di dare un senso all’esistenza, che risposte può avere?
“Il bisogno di senso non si salva. Non si salva la sua ricerca affannosa, la sua domanda incessante a cui cercano di dare risposta le religioni con le loro promozioni di fede. E nemmeno le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di salute. Nell’età della tecnica questa ricerca rivela solo che la figura del ‘senso’ non si è salvata dall’universo dei mezzi. Per cui non è tanto il laicismo quanto la cultura della tecnica a corrodere il trono di Dio”.

Nessuno scopo, dunque, nessuna meta.
“La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. È un concetto, questo, che a più riprese Heidegger ribadisce in tutta la sua radicalità: ‘Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla Terra'”.

Heidegger temeva questa deriva.
“Sempre in quella intervista per lo Spiegel, Heidegger sostiene di essersi spaventato alla vista delle fotografie della Terra scattate dalla Luna. ‘Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto’, disse. Era il 1966″.

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Come ci si pone allora di fronte alla verità?
“La verità non è più la conformità all’ordine del cosmo o di Dio, ma pura e semplice efficacia. Se infatti l’ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal ‘fare tecnico’, vero sarà l’efficace, ossia ciò che ha le condizioni per realizzarsi, e falso l’inefficace”.

Da qui l’urgenza di un’etica planetaria,  incarnata dalla figura del viandante.
“Il viandante non ha una meta da realizzare, non ha neanche un sentiero da percorrere. A tracciare il pensiero del viandante sono le sue orme. Cammina per fare esperienza. Il prossimo che incontra è sempre meno specchio di sé e sempre più altro. È costretto a fare i conti con la differenza”.

Il suo viandante può essere paragonato a un moderno Ulisse?
“È più l’Ulisse di Dante che quello di Omero”.

In che senso?
“Quella di cui parlo non è tanto l’Odissea in cui Itaca fa di ogni luogo una semplice tappa sulla via del ritorno. È un’Odissea intesa come ripresa del viaggio, secondo la profezia di Tiresia, per cui è il letto scavato nell’ulivo intorno a cui è stata edificata la reggia a divenire una tappa del successivo andare”.

Da qui il riferimento dantesco.
“Questo andare è quello che Dante riprende, lui stesso viandante, spingendo il suo Ulisse ‘di retro al sol, del mondo sanza gente’, per cui né alba né tramonto possono più indicare non solo la meta, ma neppure la direzione”.

Il viandante, dunque, nell’accezione di Nietzsche, è il navigante verso terre sconosciute.
“Esattamente. Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, così scrive: ‘Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: la costa scomparve – ecco anche la mia ultima catena è caduta –, il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo: orsù! coraggio! vecchio cuore!'”.

Il coraggio di chi intraprende un viaggio di cui non conosce l’esito. Come i migranti.
“Nel nostro tempo abbiamo fatto i conti con la proprietà, il territorio, la legge. Oggi i processi migratori confondono i confini che per il viandante sono più nella testa degli uomini che nel disegno della Terra. Ecco che dalla sua esperienza il viandante trae la conclusione che siamo tutti uomini di frontiera. E la storia futura sarà nel segno della de-territorializzazione. E le nozioni di proprietà, territorio, confine e legge finiranno con l’essere dei rami secchi in un albero inaridito”.

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