Su “Uno spettacolo italiano”, di e con Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi, che ha debuttato in prima nazionale al Teatro delle Passioni di Modena. I due artisti, insieme sul palcoscenico, si interrogano sulla politica di oggi: in un’Italia cambiata, in cui i loro “spettacolini di sinistra” non hanno più spazio, decidono che, non sapendo fare altro nella vita se non teatro, l’unica soluzione che hanno per sopravvivere è quella di diventare artisti di destra… – La recensione

Ministero non troppo buffo

Essere o non essere di destra? Questo è (diventato) oggi un problema, anche teatrale. Così, mentre va in scena, come sa e come può, fra pochade e commedia all’italiana, gaffes e supercazzole, lo spettacolo un po’ sconfortante della destra alle redini della politica culturale, in cerca di occupazione (in primis televisiva) e alla conquista di più vasti, diffusi agoniati spazi egemonici, chi da sempre ha riconosciuto e interpretato un ruolo (spesso di e da sinistra) politico e valoriale nel fare teatro, fra appartenenza e resistenza, critica e riflessione sullo spazio scenico e su quello pubblico, con la comunità della sala e nella piazza, rimane perplesso e spaventato quando una destra con radici ed elementi nostalgici e reticenze rispetto al passato ottiene consenso e va al potere.

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Di questo spaesamento (anche e letteralmente) racconta Uno spettacolo italiano, in cui la penna drammaturgica affilata, caustica e disobbediente (con qualcosa di post-cannibale e post-noviano, di Aldo) di Niccolò Fettarappa (Apocalisse tascabile e La sparanoia) e il teatro critico/disvelante, politico e provocatorio di Nicola Borghesi (già protagonista con i Kepler-451 di un modo civico, interrogante e impegnato di usare la scena, propenso a dare voce a numerosi elefanti nella stanza sociale), con la complicità militante sutuazionista di Christian Raimo (sanzionato per i suoi recenti attacchi al ministro dell’Istruzione del Merito) fra distopia e ironia, distanza satirica e sperimentazioni dei panni dell’altro, fa entrare in gioco il convitato di pietra (letteralmente la statua del Ministro sorveglia il fronte del palco) di questo frangente.

La drammaturgia può essere dunque un percorso (riabilitativo e apotropaico) non solo di calarsi nel nuovo perturbante, e adottare il punto di vista dell’avversario (in psicologia si parlerebbe di identificazione con l’aggressore), ma di guardare il mi(ni)stero dell’interno che alberga dentro ciascuno di noi, parte ombra che esprime ogni pulsione securitaria, autoritaria, xenofoba, in cerca di padre, ordine e punizione, pulizia e polizia.

Analalogamente a Michela Murgia, che scriveva e portava in scena le sue Istruzioni per diventare fascisti al fine di scovare ed esorcizzare la camicia nera interiore che indossiamo senza saperlo o ammetterlo, così Fettarappa e Borghesi, a partire da un kit ministeriale fatto di segni e simboli di comprovato segno patriottico, ci trasportano nei dark places ai quali la destra dà voce e stereotipi, frasi fatte e tic dello spirito.

E con questa parola di pietra (etimologicamente lo stereotipo è questo) ci aggredisce, di queste parole d’ordine (in spirito e sostanza) ci “obbliga” ad ascoltare la nuova liturgia, fatta di buon senso e insofferenza per il diverso, normalizzazione e patrio sacrificio, tolleranza zero e punte di verità.

Riecheggiano allora, nelle divise e nelle anime schizzofrenicamente divise in due, le voci catodiche e le chiacchiere da bar, qualunquiste e populiste come parti paradossali che ci abitano e ci parlano se appena abbassiamo la guardia (o meglio, la alziamo). Il rave e l’immigrato, il regista di sinistra e il teatrante impegnato, il centro sociale e quello d’accoglienza, sono allora cacciati dalla loro riserva, espulsi a suon di suadenti consigli, ma con toni e tuoni sempre più minacciosi e mitragliosi diventano bersaglio. Così la parodia lascia spasso al paradosso e l’incubo prende corpo fino a invadere lo spazio teatrale e a configurare una vera e propria, terrificante e sconsolante, scena del delitto. E il rasta è silenzio, verrebbe da dire (e da ridere, a dentist stretti).

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C’è qualcosa di giocoso e parossistico che disegna così l’avversario politico, fra satira e Satana, senza davvero volerlo capire o ascoltare, eppure nella paura che esprime divertendosi questo spettacolo c’è molto di come la crisi d’identità politica attraversa entrambi le tradizionali bipartizioni dell’universo politico, e forse ci fa scoprire che non è più possibile, alla Gaber, dire con estrema (estremistica?) chiarezza che cosa è di destra e che cosa è di sinistra, e che la vera nostalgia è quella per un mondo così chiaramente suddiviso, binario, e in fondo confortante, nella sua struttura manichea. Di questa fluidità politica, uno spettacolo che pure ha le idee più chiare di quello che racconta, mi sembra una testimonianza che fa riflettere e lascia l’amaro in bocca e spazio per interrogarsi.

nota: visto il 7 novembre in prima nazionale al Teatro delle Passioni di Modena

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Fotografia header: "Uno spettacolo italiano", foto di Michele Lapini

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