Non c’è spazio per un lieto fine. I racconti di Amelia Gray, scrittrice e sceneggiatrice delle serie “Maniac” e “Mr. Robot”, non hanno morale e non danno risposte, ma neanche vogliono darne. E l’assenza totale di giudizio rende la lettura ancora più disturbante – Su ilLibraio.it l’approfondimento sulla raccolta “Viscere”

“Quando ti dice che gli mancherai, affonda un cucchiaio nel suo ombelico.
Quando ti dice addio, divoragli il cuore”.

Amelia Gray (nella foto di Meiko Takechi Arquillos, ndr), sceneggiatrice delle serie Maniac e Mr. Robot, già autrice delle raccolte AM/PM e Museum of the Weird, e del romanzo Threats, chiude così la lista di Cinquanta modi per mangiare il tuo amato, tra i racconti più scomodi e insieme affascinanti di Viscere, il suo nuovo lavoro (titolo originale, Gunshot, pubblicato in Italia da Pidgin Edizioni, con traduzione di Stefano Pirone).

Viscere, una delle dieci migliori raccolte di racconti del decennio secondo Literary Hub, comprende trentasette microstorie che scavano a fondo nella realtà, sviscerandola, appunto, e tirandone fuori tutto ciò che c’è di folle, di oscuro e di ripugnante, con la sola arma di un feroce umorismo nero.

Viscere copertina

La contrapposizione tra piacere e disgusto, condensata in queste righe, permea ogni storia, ma non si presenta mai uguale a se stessa. Elementi horror, comici, fiabeschi e sentimentali si alternano e s’impastano, restituendo l’immagine di una realtà caotica, in cui l’essere umano non ha alcuna speranza di mettere ordine.

Unici punti di contatto tra le storie, lo stile affilato, denso e iper-veloce dell’autrice, e la sua volontà di immergersi completamente nell’intimità dei personaggi, esplorandola, quasi vivisezionandola, per analizzarne gli aspetti più spigolosi, i desideri inconfessabili, le perversioni.

In Cuore di Casa, uno dei racconti più contorti, una coppia assume una prostituta per rinchiuderla nei condotti di aerazione della propria casa e lasciarla vivere lì, come fosse un criceto. La situazione è orrenda e angosciante, ma irresistibile: i personaggi sono schiavi dei propri impulsi, delle proprie nevrosi, del bisogno di controllo – per quanto solo apparente. E così, eccitati dalle gambe della ragazza “che dondolavano prima di sparire in alto”, l’uomo e la donna fanno l’amore nel corridoio, proprio sotto di lei, ascoltando i rumori del suo gattonare nei condotti.

A giustificare la follia, una semplice convinzione: “Ciascuno di noi aveva una propria funzione individuale e la sua era di incarnare la casa”, come fossero tutti pedine di un gioco. Quando la donna avanza un timido dubbio in merito, suo marito la rassicura: “Ogni vita ha un muro che la circonda”.

Non c’è spazio per un lieto fine, né in questo caso, né altrove. I racconti di Amelia Gray non hanno morale e non danno risposte, ma neanche vogliono darne. L’assenza totale di giudizio rende la lettura ancora più disturbante, come se le azioni terrificanti descritte fossero, a ben vedere, del tutto normali. A volte, complice la sottile comicità dell’autrice, perfino divertenti.

In Via Da, la protagonista si ritrova sola con il suo vicino di casa: un momento prima si baciano con passione, quello dopo lui le lega le mani sopra la testa con un cavo d’alimentazione e le dice che si sta preparando a ucciderla. Appurato di trovarsi in una situazione complicata, la donna decide di comportarsi come se niente di strano stesse accadendo e, anzi, come se lei e il suo aguzzino fossero innamorati: “lo avrei stretto dolcemente se avessi avuto l’uso delle mani, ma non ce l’avevo e quindi parlai del tempo, che era stato bello quella mattina”.

Considerazioni fuori luogo, frutto di una comicità amara, che non regala alcun sollievo ma riesce, al contrario, a far sentire il lettore ancora più a disagio; non solo, lo induce a mettere in pausa la propria coscienza, al punto da trovare quasi piacevoli affermazioni orripilanti come “quando dice di amarti, taglia a brandelli i suoi polpastrelli e succhia il loro sangue” (Cinquanta modi per mangiare il tuo amato).

L’attenzione alla fisicità, d’altra parte, è viscerale: del corpo, l’autrice coglie i tratti sconvenienti, ripugnanti e sfacciati. Ne Il cigno come metafora dell’amore, il cigno viene descritto non come una creatura nobile e maestosa (chi afferma una cosa del genere “non ne ha mai visto uno da vicino”), ma per ciò che è davvero: “un cigno può risucchiare intere scuole di anfibi larvali, processarli e cacarli, e poi a volte si può sedere nella merda o camminare su di essa, ed eccoci qua”.

Come il cigno, così gli esseri umani. Imperfetti, a tratti orrendi: animali fatti non solo di anima, ma di pelle e di sangue.

Ed ecco che, ne Il momento del concepimento, una coppia è disposta a compiere un sacrificio estremo pur di avere un figlio: “quando fui posizionato correttamente dentro di lei, afferrò la base del mio membro con mano ferma e lo tranciò” e, ancora, “quando mi svegliai tempo dopo, la vidi che cuciva il suo sesso insanguinato per chiuderlo, col mio ancora all’interno”.

La sensazione di disgusto che ne deriva riesce, come per magia, a convivere con una profonda comprensione: per quanto surreali, sono situazioni tanto più dolorose perché umane, e non possono che meritare tenerezza ed empatia.

Ancora, ne La sera dell’appuntamento l’ossessione per la fisicità viene portata all’estremo: un uomo e una donna sono a un appuntamento, quando “la donna si gratta l’avambraccio un po’ troppo forte e una striscia di pelle si solleva con la sua unghia”. È il trionfo del grottesco: l’uomo si serve di un coltello da burro per sbucciare a sua volta una parte del proprio braccio, lei si modella lo zigomo per renderlo appuntito, attorno a loro “la stanza si contrae” in un delirio di spettacoli tremendi.

Infine, la consapevolezza che non si tratta di un’agonia, ma di una festa: “è questa la vita, teste di cazzo! Questo è ciò che significa essere vivi!”.

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