“Vite brevi di tennisti eminenti” di Matteo Codignola riesce a inanellare una dopo l’altra celebrazioni di esistenze normali che diventano, per pochi minuti o anni interi, straordinarie. In una galleria di foto e storie che si dipanano in un gioco di riflessi e rimbalzi, fino a diventare un puzzle individuale ed epocale insieme, relativo a un periodo specifico del tennis pre-professionistico… L’approfondimento

«La vita è fatta di piccole solitudini.»
(Roland Barthes, La camera chiara. Note sulla fotografia, Einaudi 2003)

Vic Seixas è immortalato con le sue racchette sottobraccio fuori dal campo centrale di Wimbledon nel 1950. È con sua moglie, è soddisfatto e le custodie prendono il posto di una ventiquattr’ore o di una borsa da lavoro. Possiamo annotare il taglio della giacca, il modo di indossarla, la messa in piega di lei e come entrambi stiano sorridendo. Possiamo procedere a un’analisi precisa di quella foto di agenzia, come delle altre ventuno contenute in Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola, uscito in questi giorni per Adelphi, oppure possiamo pensare di accostarle, una dopo l’altra, anche senza un ordine deciso, facendoci un’idea piuttosto precisa del tennis che fu. 

vite brevi di tennisti eminenti

Come una mappa delle memorabilia, il testo fotografico e le sue didascalie ci danno una sintesi impeccabile di un’era di questo sport difficile da immaginare, a guardarlo oggi. Vale la pena ricordarlo, però, con i suoi protagonisti atipici, come Torben Ulrich, che vedeva la pallina da tennis come un universo (si chiedeva “cos’era la palla, cosa la spingeva oltre la rete, o contro la rete o dentro la rete. C’è molto da capire”) oppure Beppe Merlo, interessato all’assenza di suono del tennis (“Giocava con una racchetta che aveva un ovale più piccolo di quelle in dotazione ai colleghi, e le corde tirate a una tensione talmente bassa che la pallina, colpendole, produceva un rumore attutito, e in certi casi nessuno”) e che sedeva sempre nell’ultima fila dell’autobus durante gli spostamenti. 

C’è malinconia nelle fondamenta di queste Vite brevi di tennisti eminenti, ma anche una certa dose di spasso (“Il tennis consiste in gesti bianchi enormemente fotogenici nella fantasia, ma nella pratica quotidiana somiglia molto di più a un a quello che vedete qui: un’attività solitaria e vagamente insensata che attiva ghiandole sudoripare nei punti sbagliati”): le storie, gli aneddoti – che compongono sì, le vite – si incastrano alle immagini, a loro rimandano e da loro si dipanano in un gioco di riflessi e rimbalzi, fino a diventare un puzzle individuale ed epocale insieme, relativo a un periodo specifico del tennis pre-professionistico.

Jacques-Henri Lartigue “non aveva fatto molto altro che passare gran parte della sua vita in Riviera, fotografando per uso personale chi aveva vicino, o chi vedeva coinvolto in attività che comportassero un qualche tipo di sfida alla gravità: aeronauti, fantini, ciclisti, ginnasti, pattinatori, sciatori, motociclisti. Tennisti” e restituiva al tennis connotazioni estetiche, quali leggerezza e bellezza, ed emotive, come la felicità. Pensare a una iconografia del tennis come felicità ci sembra ovviamente strano. L’occhio dello spettatore dei nostri giorni è abituato, salvo un caso che si può immaginare facilmente, a un punto di vista quasi sempre drammatico nella rappresentazione fotografica, e di atleti potenti, colti nel minimo o nel massimo di uno sforzo.

La messa in scena odierna è potenzialmente omnicomprensiva: il punto di vista finge di essere parziale, ma non lo è mai – alle telecamere, come alle macchine fotografiche oggi non sfugge niente – e di conseguenza il racconto che ne scaturisce può essere infinitamente analitico. Il senso complessivo, il gioco in quanto totalità delle parti e non addizione di queste, si perde, sfumando. Il tennis sciorinato da Codignola è all’opposto un tennis che punta alla complessità per narrare il totale, e dunque sportivi, più che atleti. Gli esempi di Torben Ulrich già menzionato, che vanta una vita anche come musicista insieme a suo figlio Lars, o quello di Vanni Canepele, l’avvocato tutto dedizione e lavoro, o ancora di Nicola Pietrangeli, il “tennista dei ma” che per nessuno ha mai vinto abbastanza, dimostrano la ricerca della tensione verso una narrazione più pura possibile.

Vite brevi di tennisti eminenti riesce a inanellare una dopo l’altra celebrazioni di vite normali che diventano per pochi minuti o anni interi straordinarie, in cui spesso si ha il dubbio se ciò che si sta leggendo sia finzione o meno e lasciano intendere che un’epoca di toni seppia e gesta iperboliche sia finita, per lasciar posto a pochissimi racconti altrettanto affascinanti.

In Twynam di Wimbledon di John McPhee, contenuto in Tennis (Adelphi, 2013), conosciamo l’eroe classico del tennis: il giardiniere capo di Wimbledon, «un orante che passa gran parte del suo tempo a pregare per l’erba», il guardiano della purezza per eccellenza, che non solo ha una cura profonda per il campo verde, il minimo indispensabile per compiere il suo lavoro al meglio, ma un senso altrettanto maniacale per tutto ciò che lo calpesta, dai piedi dei tennisti alla pioggia; la sua passione ossessiva lo rende il miglior amico, simpatico e un po’ matto, di tutti gli attori di questo sport: dei tennisti di un tempo come di quelli di oggi, degli addetti ai lavori come degli spettatori incalliti; potrebbe essere, inoltre, il settimo uomo perfetto della prima fotografia presente in Vite brevi di tennisti eminenti.

Il lettore la osserva qualche secondo di troppo perché le è conferito il posto d’onore, ma già dopo una decina di pagine se ne dimenticherà. Non rimane in superficie, ma si sedimenta in un angolo come un personaggio secondario di cui si sa ancora poco ma che alla fine accenderà la luce su tutto il resto. 

Ci sono sei tennisti, tre seduti e tre in piedi, innominati, che aspettano solo di passare ad altro e il capo giardiniere lo possiamo immaginare seduto anche lui, fra gli altri, o in piedi da un lato, pronto a dire la sua. I sei tennisti hanno l’aria rarefatta come manichini. “Tennisti, 1900 ca. Collezione privata.”, recita la catalogazione: un plurale indefinito, l’archetipo informe da cui idealmente può originarsi qualunque vita possibile.

 

L’AUTRICE – Elena Marinelli vive e lavora a Milano, ma è nata in Molise, vicino a un passaggio a livello. Ha scritto per Abbiamo le prove, l’Ultimo Uomo e Gli 88folli. Il terzo incomodo (Baldini & Castoldi, 2015) è il suo primo romanzo.

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