Il nuovo numero della rivista “Nuovi Argomenti” ha come tema la Rivoluzione d’ottobre, di cui ricorre il centenario. Su ilLibraio.it l’intervento di Matteo Trevisani, che racconta la genesi della sua folgorazione per i versi di Vladimir Majakovskij

Nuovi Argomenti, la storica rivista letteraria, è arrivata all’ottantesimo numero, dedicato alla Rivoluzione d’ottobre – di cui, quest’anno, ricorre il centenario. Una serie di scrittori raccontano la Rivoluzione dal punto di vista di un particolare autore, poeta, drammaturgo che la Rivoluzione russa l’ha vissuta davvero. Per citarne alcuni, Andrea Tarabbia parla del poeta Alexandr Blok, Marco Cubeddu di Vladimir Nabokov, Alessandro Niero di Sergej Stratanovskij, Matteo Trevisani di Vladimir Majakovskij.

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Per gentile concessione della rivista, su ilLibraio.it pubblichiamo l’intervento di Matteo Trevisani (all’esordio con il romanzo Libro dei fulmini, Atlantide), che racconta la genesi della sua folgorazione per i versi di Vladimir Majakovskij, poeta della Rivoluzione.

VLADIMIR MAJAKOVSKIJ
O LA BALENA

di Matteo Trevisani

A pensarci bene ogni scoperta è la storia di una delusione. E più la scoperta è importante, più la delusione avrà lo stesso sapore amaro della sconfitta e della verità. Fu di primavera, o forse era fine inverno mentre in motorino facevo quattro volte al giorno il tragitto tra l’università e una piccola stanza presa in affitto al settimo piano di un orrendo palazzo che dava su piazzale delle Provincie. Avevo preso l’abitudine di ascoltare, mentre me ne andavo in giro per Roma, un recital del 1974 di Carmelo Bene dal titolo Quattro modi di morire in versi e in uno di quei giorni indolenti, dove l’anima pensa che sia possibile prepararsi alla vita futura solo a forza di esami e di alcol scadente, fermo a un semaforo, ascoltai folgorato quelli che mi sembrarono i versi più belli della mia vita.

[…]
mentre ancora si scorge
qui, sagoma di cetaceo
l’ombra dell’aurora.

Sagoma di cetaceo l’ombra dell’aurora. Scattò il verde, feci una decina di metri poi mi arresi, fermai il motorino su un marciapiede, mi tolsi il casco e premendo gli auricolari contro le orecchie ascoltai di nuovo: sagoma di cetaceo / l’ombra dell’aurora. In un attimo mi ritrovai in una fredda mattina sul Baltico, mi immaginavo i fuochi di Pietrogrado, nel punto più oscuro della Rivoluzione. Ecco che mentre attorno a me splendeva il sole caldo di Roma, un’alba gelida e scura mi sorgeva dentro, si faceva spazio nelle vene buie, grigia come una balena, opaca come uno smalto nautico. Ero esaltato e scosso, tornato a casa scoprii che il poeta che aveva descritto il sole nascente come una balena era Vladimir Majakovskij, il cui lavoro avevo sfiorato durante l’adolescenza ma non avevo mai approfondito. Come ci si invaghisce delle cose belle divenni un esperto del poeta russo in poche settimane. Lessi tutto, comprai tutto, ascoltai tutto. Avevo una ragazza, Flavia, e qualche giorno dopo la feci stendere sul letto e la costrinsi ad ascoltare con me il recital. Aspettavamo in silenzio il verso mentre camminavo da solo per la stanza. Io avevo già imparato le altre poesie a memoria, e muovevo solo le labbra, nel più tragico gesto degli attori navigati, per non fare in modo che la mia voce si sovrapponesse a quella di Bene. Appena sentii che il verso stava per arrivare le feci cenno di prestare più attenzione, e alzai velocemente una mano aperta come a indicare qualcosa nel muro sporco della stanza, come se potessi così ricreare il panorama che avevo in testa sussurrando: sagoma di cetaceo / l’ombra dell’aurora.
Esausto e felice mi voltai a vedere sulla sua faccia il risultato di quell’interpretazione.
«Guarda che Aurora è il nome dell’incrociatore ancorato al porto di San Pietroburgo».
«Come?».
«Eh. È quello che ha dato il segnale per l’assedio al Palazzo d’Inverno».
«…».
«Davvero pensavi che fosse l’aurora aurora, il sole?»
«…».
«Guarda che lo sanno tutti».

E così tra me e Flavia le cose non furono più le stesse. Forse dovevo dirle che dove ero nato io il sole sorgeva sul mare, e che forse mi ero sbagliato per quello e che l’associazione orizzonte acquoreo-alba non va bene per tutti, ma non mi avrebbe mai scusato abbastanza. Poco male. Forse avevo perso una ragazza, ma avevo guadagnato un poeta. E contando che Majakovskij ormai non poteva più morire si può dire che avevo vinto io, da un lato prettamente economico, agli sportelli dell’amore giovane.
Effettivamente però, riascoltando attentamente quei versi, forse potevo arrivarci.

Il titolo del poema, composto nel 1927 e considerato dal poeta un suo manifesto politico, è Bene!: nella città la Rivoluzione è finita. Il Palazzo d’Inverno è caduto alle 2.26 del mattino e ci troviamo lì davanti, nella piazza. Dietro quella che ormai è l’ex residenza degli imperatori russi il grande fiume Neva scorre tetro. Le guardie rosse si riscaldano vigilando ai fuochi dei falò. Tra di loro c’è un soldato, una fiamma gli illumina il volto e Majakovskij lo riconosce. È Aleksandr Blok, il grande poeta simbolista passato dalla parte dei rivoluzionari, lui stesso però simbolo di una Russia pre-rivoluzionaria e pre-sovietica. Majakovskij lo incalza con frasi che fremono di ardore futurista e Blok gli risponde simulando contentezza e orgoglio: «Bene!». Ma subito dopo il suo sguardo triste si posa di nuovo sulle fiamme che ardono di fronte a lui: è affranto, sconsolato. La Rivoluzione gli chiede in pegno ciò che ha di più caro. Risponde: «Dalla campagna… scrivono… / m’hanno bruciato la biblioteca / nella villa…», come se dentro di lui la contraddizione tra passato e futuro fosse una lotta continua, irrisolvibile. Ho sempre provato una pena fraterna per il soldato Blok. Majakovskij invece sa che non si può fare la Rivoluzione senza essere rivoluzionari e quello che ora ha davanti è tutto futuro. Il passatismo burocratico della Russia zarista è storia vecchia, il decadentismo delle vecchie poesie simboliste cala a picco, egli non è più il cantore dei vecchi miti, non avrà nessuna nostalgia, nessun senso di colpa. È pronto a offrire tutto quello che ha per il bene del grandioso futuro che lo attende. Non sa ancora che ad attenderlo ci sarà anche lo sparo di una rivoltella, pochi anni dopo. Ma intanto, la nuova tenerezza, i nuovi amori, saranno paragonati all’amore per la Russia sovietica, nient’altro. I nuovi sentimenti saranno totalizzanti ed eccessivi, il dinamismo sentimentale del nuovo linguaggio poetico è esasperato e iperbolico, portato fino alle ultime istanze.

In quella che a me pare la sua poesia d’amore più bella e più appassionata, Lettera a Tat’jana Jakovleva, dedicata alla donna che nel suo cuore ha preso per un po’ il posto di Lilja, Majakovskij scrive di volere il rosso colore delle «sue repubbliche» anche nel bacio delle mani e in quello delle labbra. La poesia è del 1928, undici anni dopo la Rivoluzione, due anni prima del suicidio. Vladimir ha incontrato Tat’jana a Parigi, era in Francia per un tour di letture. Se ne innamora in maniera violenta, ossessiva. Manda fiori tutti i giorni, che lei riesce a scambiare per cibo, salvandosi la vita. Continuerà a ricevere fiori tutti i giorni, fino alla morte.

Amo profondamente questa poesia. Dentro c’è la forza dell’amore inoppugnabile benché non ricambiato, quello che scuote il mondo e che sconvolge i cuori di tutto un popolo e fra questi quello di una donna che a Parigi ne rifiuta l’inevitabile evidenza tragica. Majakovskij qui è un gigante sorretto dalla purezza dei sentimenti del cuore, un sentimento inscalfibile, urlato come sempre, a voce piena. Tat’jana è quasi un nemico: «Non è da te / che attraversasti nevi / e pestilenze / con queste belle gambe / qui alle carezze / scoprirle alle cene coi petrolieri / non star tanto a pensare / col tuo semplicemente / socchiudere le ciglia raddrizzate / Vieni qui / vieni all’incrocio / delle mie grandi / e rudi braccia. / Non vuoi? / Restaci allora e sverna, / e questo affronto / mettiamolo nel conto. / Non me ne importa / un giorno / ti prenderò / – te sola – / o con tutta Parigi».
Piacque perfino a Flavia.

La poetica di Majakovskij è concreta, impulsiva perfino aggressiva, il suo sguardo sulle storture del mondo è intransigente e duro, spavaldo, senza compromessi. Dopo la sconfitta della prima Rivoluzione, quella del 1905, i poeti, gli artisti e i letterati sono alla deriva, alla ricerca di un approdo e non trovano altro rifugio che in loro stessi, come naufraghi confusi e abbandonati. Ma ora, con il 1917, il tempo è di nuovo maturo: sono pronti per diventare il punto di riferimento del popolo, la voce di milioni di persone. Dopo l’Ottobre però Majakovskij diventa ingombrante, si trasforma in un enorme cetaceo che nuota a suo agio solo nell’oscuro e tempestoso mare della Rivoluzione perpetua. È il suo luogo naturale, non ne desidererebbe un altro. Ma è anche un animale selvaggio e nuovo, è il capostipite di una razza che non esiste ancora e che non avrà altre generazioni: il mondo guarderà a questo esemplare con gli occhi sgranati, come se si trovasse di fronte a un alieno, o a un dio.
Ma la Rivoluzione non tollera gli dèi. Specialmente gli dèi inquieti.

Intellettuale tormentato, Majakovskij venne perseguitato da quell’ufficialità che aveva contribuito a cacciare dai palazzi, e gli intellettuali mediocri, i burocrati invidiosi cominciarono una tremenda guerra di calunnia contro di lui. Una guerra diversa, subdola e senza armi, che il poeta non sa combattere. L’accusa, intollerabile, è quella di non riuscire più a parlare con il popolo: i suoi versi sembrano oscuri, lontani dai compagni operai. Per ragioni che non sono mai state spiegate del tutto, il 14 aprile del 1930 Majakovskij si spara al cuore. Il poeta della Rivoluzione ha trentasette anni. Ai suoi funerali parteciperanno centinaia di migliaia di persone, mostrando tutta la forza dell’imprevisto amore del popolo russo.

La sua lettera d’addio dice: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici».

Prima che io e Flavia ci lasciassimo del tutto passammo qualche giorno a casa mia, nelle Marche. Una sera bevemmo molto, e poi litigammo, urlandoci contro e baciandoci insieme, barcollando come Vladimir e Lilja a San Pietroburgo. L’alba ci colse impreparati e infreddoliti sui muraglioni che dal molo nord di San Benedetto del Tronto si buttano a picco nel fiume Adriatico. Lilja, che era stata abituata a guardare il sole sorgere dalle montagne indicò il mare tra le barche ormeggiate e disse: «Guarda, l’aurora».
E sì, per la prima volta la vedevo davvero.

(continua in libreria…)

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