Una volta era il grande tabù della scrittura per lo schermo: il voice over era visto come un trucco facile, una scorciatoia da evitare. Le immagini, si diceva, dovevano bastare a raccontare. Eppure oggi quella voce fuori campo – profonda e intima – è diventata il cuore pulsante di un nuovo linguaggio visivo. Su TikTok e nei reel, il voice over non è solo una tecnica narrativa: è un format, una firma, uno specchio. Con pochi secondi di immagini e due frasi scritte bene, chiunque può raccontare chi è, cosa prova, dove vuole andare. È storytelling emotivo e immediato, un modo per dare ordine al caos e significato ai frammenti. E forse, sotto sotto, è proprio questo che cerchiamo: una voce – anche artificiale – che ci dica che sì, un senso c’è…

Robert McKee – guru della scrittura per il cinema e autore del celebre Story – ha offerto ai giovani sceneggiatori un catalogo di precetti quasi sacri su come scrivere una buona sceneggiatura. Uno dei più noti è: “Mai usare il voice over“.

Per nostra fortuna, questa regola è stata trasgredita innumerevoli volte.

Sarebbe impensabile, altrimenti: niente voce di Amélie, niente Meredith Grey, niente Radio Caos. E che capolavori sarebbero senza quelle voci narranti che ci guidano, ci accarezzano, ci svelano l’invisibile? Eppure il monito di McKee si basa su un principio fondamentale: in una sceneggiatura che funziona, le immagini devono bastare a sé stesse. Il visual storytelling dovrebbe essere talmente forte da rendere superfluo ogni spiegone.

Story Robert McKee

Ma che cos’è, tecnicamente, il voice over? In termini semplici, si tratta di una tecnica narrativa audiovisiva in cui una voce – non visibile sullo schermo – accompagna le immagini fornendo commento, pensieri o contesto. Può essere la voce interiore di un personaggio, una guida esterna alla storia o persino un dispositivo metanarrativo.

Viene spesso usato per creare empatia, per spiegare l’antefatto, per accelerare la narrazione. È una voce “fuori campo”, ma dentro al racconto. E proprio per questo, può diventare una scorciatoia o un’arma potentissima, a seconda di come viene usata.

Charlie Kaufman, uno degli sceneggiatori più amati e anticonvenzionali, autore di Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Essere John Malkovich, ha giocato in modo unico con questa idea ne Il ladro di orchidee. In quel film, mette in scena due gemelli sceneggiatori: uno, rigoroso esecutore delle regole di McKee, sforna blockbuster di successo. L’altro, più istintivo, scrive col cuore, seguendo l’ispirazione. E indovina chi ha successo? Esatto. Quello che segue le regole. Tra cui, ovviamente, il divieto di usare il voice over.

Per anni, chiunque abbia sognato di scrivere per l’audiovisivo ha dovuto fare i conti con quella voce interiore – ma non nel senso romantico. Era piuttosto un giudice severo, lo sguardo accigliato di McKee pronto a bocciare ogni tentativo di inserire un monologo poetico su immagini di paesaggi malinconici. Abbiamo imparato a “scrivere con le immagini“, a fidarci del silenzio, a resistere alla tentazione di una voce calda che guidasse lo spettatore nel nostro mondo creativo.

E proprio questa fiducia nell’immagine ha contaminato anche la scrittura letteraria: la famosa regola dello “show, don’t tell“, nata e perfezionata nell’audiovisivo, è diventata un mantra per molti autori di narrativa. Anche nei romanzi oggi si tende a mostrare, non spiegare; a suggerire emozioni e contesti attraverso gesti, ambienti, azioni – più che parole.

Ma poi… tutto è cambiato.

Sono arrivati i vlog, i TikTok, i CapCut template con voce da trailer hollywoodiano – quella voce profonda, a metà tra Morgan Freeman e la coscienza di Amanda in L’amore non va in vacanza. Un trend è esploso (#narrator).

Screenshot di un video TikTok in cui viene utilizzato il voice over del #narratortrend

Con l’aiuto di app che offrono modelli già pronti, accessibili a chiunque, è diventato facilissimo inserire voice over su clip video. Basta scegliere un template, caricare le proprie immagini o brevi video, scrivere due righe di testo, e il gioco è fatto. La voce narrante – sintetica ma emotiva – legge per te. Racconta chi sei. Spesso con la tonalità grave, cinematografica, da trailer epico o da confessione intima.

Screenshot di un video TikTok in cui viene utilizzato il voice over del #narratortrend

Questi video funzionano per tre motivi. Il voice over crea una connessione, ti dà l’illusione di entrare in contatto con la parte più autentica di chi parla (o meglio: di chi scrive, perché la voce è spesso una voce generata). Hanno una struttura narrativa chiara (inizio – svolgimento – piccola rivelazione): sono, in altre parole, storytelling puro, ma confezionato in 30 secondi. Sono facilissimi. Per farli non serve saper montare, non serve saper recitare. Il template fa tutto per te. E tu diventi protagonista. Così, il voice over non è più solo uno strumento narrativo, ma un format identitario.

Screenshot di un video TikTok in cui viene utilizzato il voice over del #narratortrend

C’è chi lo usa per autopromuoversi, per farsi conoscere come professionista. Chi per gioco. Chi per raccontarsi davvero. La maggior parte, in fondo, ci si butta dentro con spirito da MySpace vintage: un’intro, una riflessione, un piccolo scavo interiore. Un video-curriculum emozionale. Un racconto di sé tra adolescenza e futuro, tra ciò che siamo stati e ciò che vorremmo diventare.

Cosa sarebbe la vita senza voce?

È un po’ kitsch, certo. Ma funziona. Emoziona. E allora, checché ne dica McKee, coinvolge. E racconta. Con quella voce onnisciente che tutto sa e tutto può – come il destino che silenziosamente immaginiamo stia dirigendo le nostre vite.

E probabilmente è proprio questo il senso del voice over: dare un piano agli eventi, un significato. Perché cosa sarebbe la vita senza qualcuno che ce la racconta? Qualcuno che ce la spiega, che ce la rende un po’ più accettabile.

E, soprattutto, cosa sarebbe la vita senza voce?

Screenshot di un video TikTok in cui viene utilizzato il voice over del #narratortrend

Il grande obiettivo della scrittura – e di chi la studia, la pratica, la insegna – è proprio questo: trovare la propria voce. E farla sentire.

Oggi, le voci si accavallano. Si assomigliano. Sono tutte narranti, tutte intime, tutte “molto vere”, tutte “molto personali”. Ma anche molto simili. I video si sovrappongono, come se fossero prodotti da una sola grande voce collettiva che ci tiene per mano. Ed è vero: ci stiamo uniformando. Ma è anche vero che ne abbiamo bisogno.

Abbiamo bisogno di raccontarci come non mai

Abbiamo bisogno di raccontarci come non mai. Tutto è narrabile. Tutto deve essere raccontato. È l’epoca dello storytelling, del personal branding, del racconto perpetuo di sé. Devi essere un personaggio. Devi “venderti”. Devi dire chi sei e cosa fai nella vita – e possibilmente, farlo con musica di sottofondo e una voce profonda che legge il tuo testo.

Sei una persona, ma sei anche una storyboard. Una sequenza di immagini da montare in modo coerente, accattivante, emozionante. Sei un contenuto.

Chissà cosa direbbe McKee dei vlog di TikTok. Di queste sequenze di immagini che da sole, narrativamente parlando, non significano granché. Ma che diventano qualcosa solo quando si accende quella voce. Quel voice over che ci dice: “Ecco chi sono“. Forse, in fondo, è questo l’unico modo che ci è rimasto per capirlo anche noi.

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