Al Festival della Comunicazione di Camogli un incontro sul Binge-watching, annoverato tra le nuove forme di dipendenza tecnologica insieme, tra gli altri, alla ludopatia da videogiochi. Ma quali rischi comporta la visione compulsiva di più episodi di una serie tv in un’unica seduta? Su ilLibraio.it il commento della semiologa Valentina Pisanty

Da qualche anno è stata coniata un’espressione per designare la visione compulsiva di più episodi di una o più serie tv in un’unica seduta: binge-watching, sulla falsariga del binge-eating, bulimia. Esploso in concomitanza con la produzione dell’ultimissima generazione di fiction americane (Breaking Bad, Game of Thrones, Homeland, True Detective, House of Cards…), il fenomeno è in crescita esponenziale. Come un buco nero risucchia le energie, l’impegno e le passioni di un numero crescente di persone (due americani su tre, secondo le ultime statistiche) disposte a mettere in stand-by le proprie vite pur di protrarre indefinitamente il soggiorno negli universi finzionali messi copiosamente a disposizione da piattaforme come Netflix, HBO, Infinity TV, e da siti gratuiti come (in Italia) guarda serie, eurostreaming e altri.

Eppure non c’è un target specifico. Gli appassionati di serie sono persone molto diverse tra loro, tutte risucchiate nell’orbita di un unico dispositivo in grado di livellarne le risposte, di farle convergere in atteggiamenti e posture sorprendentemente simili. Sotto il profilo della bulimia seriale, non c’è un significativo divario tra generazioni, classi sociali, orientamenti politici o gusti estetici. Tutti i serializzati si esprimono all’incirca allo stesso modo. Tutti parlano del loro rapporto con le serie in termini morbosi, riconoscendo la propria dipendenza con un misto di inquietudine e di abbandono, di senso di colpa e di autocompiacimento. Evidentemente gli effetti di serie sono più potenti di qualsiasi inclinazione idiosincratica.

Ma quanto è accurato (o viceversa metaforico) l’accostamento della visione compulsiva di serie ad altre forme più tradizionali di dipendenza, considerato che uscire dal tunnel di Breaking Bad è un’impresa tutto sommato affrontabilissima? E, anche ammettendo che si tratti di una forma di dipendenza, quanto è effettivamente tossica? Posto cheuna dipendenza può dirsi nociva quando“1) è causa di reali problemi per chi è dipendente, e 2) si offre come sollievo di cui essa stessa è causa” (la definizione è di David Foster Wallace, “Gli scrittori americani e la televisione”, 1990), non c’è dubbio che il binge-watching soddisfi pienamente la seconda clausola: per come sono architettate, le fiction televisive provocano reazioni di attaccamento ossessivo che solo la somministrazione di ulteriori dosi può temporaneamente alleviare, salvo poi indurre il soggetto “serializzato” a precipitare sempre più a fondo nella sua dipendenza.

Più discutibile il soddisfacimento del primo requisito. A parte l’enorme dispendio di tempo e di energie (ci vogliono 47 ore e 8 minuti per vedere tutte le stagioni di The Walking Dead, giusto per fare un esempio), quali problemi provocano le maratone in streaming? C’è motivo per suonare l’allarme sociale, riconoscendo per esempio una correlazione tra il binge-watching e la depressione, oppure l’ostentata apprensione con cui si parla della dipendenza da serie rientra a sua volta nella strategia di marketing virale con cui le nuove fiction vengono proposte e accolte da un pubblico desideroso di farsi contagiare?

Fenomeno ambivalente quanto il mezzo che lo veicola – Internet come veleno e rimedio della solitudine – la maratona seriale cessa di esercitare i suoi effetti alienanti nel momento in cui questi vengono confessati, commentati, condivisi, spesso in chiave ironica e autoassolutoria, sino a codificare i tratti di uno stereotipo comune – quello del drogato di serie. Chi vi si identifica accetta di buon grado, o addirittura rivendica come proprio quel “paradosso di Joe Valigetta” con cui Foster Wallace a suo tempo definiva la dipendenza televisiva più tradizionale. In un orecchio il dispositivo sussurra all’utente: «Joe, Joe, c’è un mondo dove la vita è vissuta sul serio, dove nessuno passa sei ore al giorno a rilassarsi davanti a un mobile»; nell’altro gli dice: «Joe, Joe, il tuo migliore e il tuo unico accesso a quel mondo è la tv». Consapevole del doppio legame in cui si è volontariamente avvolto, l’individuo serializzato si abbandona alla propria impotenza, confortato dalla complicità ridanciana che lo lega a milioni di altri simili a lui.

L’INCONTRO AL FESTIVAL

Al Festival della Comunicazione di Camogli in programma anche un incontro dedicato al tema al Binge-watching: oggi annoverato tra le nuove forme di dipendenza tecnologica insieme alla ludopatia da videogiochi, al sesso in rete e alla sindrome del cellulare fantasma, il cosiddetto binge-watching (la visione compulsiva e ininterrotta di serie televisive) pare legato all’offerta pressoché illimitata di stagioni complete in streaming, che svincola la visione dalle cadenze del palinsesto tradizionale, con immediate ricadute sulle modalità di consumo. Per la maggior parte degli utenti la fruizione avviene in solitario, spesso in ambiente domestico, in un rapporto regressivo con il dispositivo trasmittente che agevola l’immersione totale negli universi della finzione eroica e la riluttanza a far ritorno nell’assai più modesta sfera dell’agire quotidiano. Ma quanto è lontana la compulsione seriale dalle forme più tradizionali di intossicazione? L’intervento di Valentina Pisanty (semiologa, insegna presso l’Università di Bergamo) analizza la vasta fenomenologia delle dipendenze da serie da una prospettiva semiotica, con il proposito di distinguere tra diversi stili di fruizione immersiva: dalle maratone solitarie e onnivore che possono suscitare sentimenti individuali di frustrazione e di inadeguatezza, all’intensa attività sociale che viceversa circonda alcuni specifici culti televisivi. Quale connessione c’è tra questi atteggiamenti e l’architettura di quei mondi narrativi? E quali effetti producono le frequenti e prolungate immersioni nei mondi seriali sulla percezione collettiva del mondo reale?

L’autrice ha pubblicato, tra gli altri, Leggere la fiaba (Bompiani, 1993), Semiotica e interpretazione (con Roberto Pellerey, Bompiani, 2004), La difesa della razza: Antologia 1938-1943 (Bompiani, 2006), Semiotica (con Alessandro Zijno, McGraw-Hill, 2010), Abusi di memoria (Bruno Mondadori, 2012) e L’irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo (Bompiani, 1998; edizione rivista e ampliata, 2014). Collabora con le pagine culturali del Manifesto.

Su www.festivalcomunicazione.it il programma completo del festiva e tutte le informazioni.

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