Su ilLibraio.it un estratto da “Riavviare il sistema – Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla”, il primo libro di Valerio Bassan. Nel mettere a nudo le dinamiche e le insidie che si celano dietro i nostri schermi, l’autore (la cui newsletter Ellissi è diventata un punto di riferimento per gli appassionati di media e digitale) indica una possibile via per scardinare questo meccanismo e ricostruire una rete più sostenibile e giusta, aiutandoci a capire come mettere in discussione – e ripensare – gli iniqui modelli di business che governano il web…

La promessa originaria di Internet è stata tradita. Nata come uno spazio infinito di libertà creativa e partecipazione democratica, questa tecnologia rivoluzionaria si è trasformata in una grande arena in cui vince chi applica le logiche commerciali più spietate. Ogni azione che oggi compiamo online – come informarci, comunicare, fare amicizia o acquistare qualcosa – rende sempre più ricchi gli oligarchi della rete e finisce per impoverire noi, i suoi abitanti.

Nel suo primo libro, Riavviare il sistema – Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla (Chiarelettere), Valerio Bassan, giornalista e strategist classe ’86, ricostruisce i processi capitalistici che hanno reso Internet un “luogo inabitabile”. Nel mettere a nudo le dinamiche e le insidie che si celano dietro i nostri schermi, l’autore (la cui newsletter Ellissi è diventata un punto di riferimento per gli appassionati di media e di Internet in Italia) indica una possibile via per scardinare questo meccanismo e ricostruire una rete Internet più sostenibile e giusta, aiutandoci a capire come mettere in discussione – e ripensare – gli iniqui modelli di business che governano il web.

 

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Per farlo sarà necessario ripartire dalle basi, cambiando il modo in cui investiamo collettivamente tempo e attenzione, ma soprattutto maturando la consapevolezza che solo reclamando a gran voce i nostri diritti digitali saremo in grado di riscrivere il futuro della rete.
Che Internet vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi?

L’autore lavora come consulente per media company italiane ed internazionali ed è mentor presso la Newmark Journalism School della City University di New York. Ha tenuto un TEDx dal titolo L’economia della relazione salverà i media ed è condirettore di DIG, importante festival europeo dedicato al giornalismo investigativo.

Riavviare il sistema di Valerio Bassan

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Da “giardini” a “foreste”. Aprire le recinzioni del Web

Suzanne Simard, oggi professoressa di Ecologia forestale all’Università della British Columbia, ha trascorso gran parte della sua carriera cercando di svelare il «segreto delle foreste». E ha scoperto che, nel sottosuolo di ogni bosco, esiste una complessa rete di interscambio che unisce gli alberi, mettendoli in comunicazione tra loro. Questo network simbiotico, denominato micorriza, è di tipo mutualistico: gli organismi coinvolti – alberi e funghi – portano avanti il loro ciclo vitale vivendo a stretto contatto e traendo benefici reciproci. Attraverso il network della micorriza le piante condividono alcune sostanze nutritive e riescono ad avvisarsi dell’arrivo di un pericolo incombente, inviando impulsi e segnali. In breve, comunicano.

Grazie ai suoi studi, Simard è riuscita a dimostrare che le foreste funzionano come delle piccole società di interscambio, i cui rappresentanti portano avanti un percorso non esclusivamente finalizzato alla sopravvivenza, ma anche alla «negoziazione, alla reciprocità e persino all’altruismo».

Internet oggi somiglia ben poco al network della micorriza. Ogni piattaforma tende infatti a comunicare solo con sé stessa, e cerca in tutti i modi di impedire che i suoi dati finiscano nelle mani di una concorrente. Le principali aziende tecnologiche si sono trasformate in super-app con steccati digitali sempre più alti, e un numero sempre maggiore di servizi al loro interno.

E se in origine la rete permetteva a ogni nodo di scambiare informazioni con qualsiasi altro, oggi l’unico tratto comune delle piattaforme è la reciproca incompatibilità dei loro protocolli di comunicazione. Utilizzare linguaggi diversi da quello dei competitor permette a queste aziende di “murare” i nostri dati al loro interno, e quindi di trarne il maggior profitto possibile.

Questo frammenta le nostre esperienze digitali. In un articolo David Pierce, editor-at-large di «The Verge», spiegava questo meccanismo per sottrazione: «Vi immaginate se aveste bisogno di un indirizzo Outlook per i vostri colleghi che usano Outlook e di un indirizzo Gmail per i vostri amici che usano Gmail, e poi di un account Hotmail solo per parlare con vostra zia Gertrude? Be’, attualmente i social funzionano così».

Ma cosa succederebbe se, d’un tratto, tutte le app social e di messaggistica potessero parlarsi e scambiarsi informazioni in modo paritario, trasparente e gratuito? È questo il concetto su cui si fonda l’interoperabilità, che molti osservatori oggi ritengono possa essere la tecnologia alla base di un ripensamento degli attuali modelli centralizzati e monopolistici. Rendendo le piattaforme interoperabili, Internet potrebbe “micorrizarsi”: diventare una rete di interscambio continua tra i suoi attori, in cui i messaggi viaggiano tra “specie e specie” – o meglio, tra piattaforma e piattaforma e tra app e app – senza interruzioni di sorta, in base a uno spirito comune di condivisione e di mutualità.

In questo nuovo Web, la nostra user experience sarebbe radicalmente diversa: potremmo per esempio utilizzare un’unica app per inviare e ricevere messaggi da chiunque sul Web, pubblicare contenuti su tutte le piattaforme in un solo click, trasportare i nostri follower da un social all’altro e seguire i creator cross-piattaforma, gestendo le nostre impostazioni di privacy attraverso una singola interfaccia. Ma soprattutto, potremmo impedire alle piattaforme di lucrare eccessivamente sui nostri dati, che diventerebbero condivisi tra più attori, e non più (o non solo) “proprietà privata” di qualcuno.

Per spiegare cos’è l’interoperabilità, non c’è modo migliore che osservare il funzionamento di Mastodon. La piattaforma fondata nel 2016 dallo sviluppatore tedesco Eugen Rochko potrebbe, a prima vista, sembrare poco più di un clone di Twitter. In realtà Mastodon differisce dalla piattaforma di proprietà di Elon Musk in tre aspetti principali: è no-profit, è open source, e si regge su una struttura decentralizzata e interoperabile.

Le sue community – chiamate “istanze” – sono ospitate su server indipendenti che possono essere gestiti da singoli individui, gruppi o organizzazioni. Chiunque può aprirne una e stabilire le proprie regole e i propri termini di servizio: ma soprattutto, ogni istanza può interagire con quella di qualsiasi altro server, e i loro iscritti possono scambiarsi messaggi e seguirsi a vicenda.

Lo stesso approccio inter pares è applicato verso l’esterno del network di Mastodon. La piattaforma fa infatti parte del “fediverso”, una costellazione di social media e piattaforme noprofit che possono “parlarsi” e scambiarsi informazioni. Con il proprio account Mastodon un utente può esistere anche su altri social network decentralizzati che appartengono alla community, e questo senza perdere i propri contenuti e i propri follower. È come se il nostro account di Instagram ci permettesse di seguire anche il canale di una creator su YouTube, o di scambiare messaggi privati con qualcuno su TikTok, senza uscire dall’app, né dover cambiare piattaforma. Nel fediverso, poi, i nostri dati restano nostri: se decidiamo di chiudere un account e di migrare su un servizio “concorrente”, non perdiamo le persone che ci seguono né quelle che seguiamo.

Il linguaggio che permette alla piattaforma di Mastodon di aprirsi al resto di Internet è ActivityPub, un protocollo che per molti osservatori potrebbe essere alla base della nuova “foresta” di Internet. Sebbene le radici di questo sistema di regole siano vecchie quanto il Web, la sua effettiva diffusione è piuttosto recente. ActivityPub è stato infatti introdotto nel 2018, quando il World Wide Web Consortium (W3C), l’organizzazione no-profit fondata da Tim BernersLee che si occupa di stabilire i requisiti tecnici del Web, lo ha suggerito ufficialmente come lo standard internazionale per il social networking. La popolarità di ActivityPub è in crescita: oltre a Mastodon anche PeerTube (un’alternativa a YouTube), Lemmy (un’alternativa a Reddit), Nextcloud (un servizio di hosting in cloud) e Pixelfed (una versione open source di Instagram) hanno adottato il protocollo.

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Anche Automattic, la società proprietaria di WordPress, il servizio più diffuso al mondo per la gestione di contenuti e la pubblicazione di siti web, ha cominciato a muovere i propri passi nel campo dell’interoperabilità: nella primavera del 2023 ha comprato Activity for WordPress, un plugin che permette ai gestori di blog di unirsi e comunicare con reti web distribuite come Mastodon. Nell’autunno dello stesso anno, poi, Automattic ha investito 50 milioni per assicurarsi Texts.com, un’applicazione universale che permette agli utenti di utilizzare tutte le app di messaggistica in un’unica “casella di posta” – permettendo comunicazioni multidirezionali e crittografate tra servizi concorrenti come iMessage, WhatsApp, Telegram, Signal, Messenger, Twitter, Instagram, Discord e LinkedIn. Persino Threads, un clone di Twitter lanciato da Meta nel luglio 2023, ha promesso di rendersi pienamente interoperabile e di adeguare la propria struttura per integrare il nuovo standard di ActivityPub; Flipboard e Medium, invece, hanno creato una propria istanza di Mastodon, e stanno invitando i propri utenti e curatori a pubblicare anche lì, oltre che sulla piattaforma principale.

L’interoperabilità non è un concetto astratto: almeno in parte è già realtà. Le nostre caselle di posta elettronica ne sono un esempio. Sebbene esistano diverse applicazioni che ci permettono di inviare e ricevere le e-mail, ognuna è in grado di comunicare con le altre. Ma sviluppare l’interoperabilità del Web non ha soltanto l’effetto di abbattere le recinzioni tra i vari feed e canali di comunicazione: significa, soprattutto, separare l’interfaccia utente dai dati sottostanti Se applicata nel modo giusto, l’interoperabilità potrebbe garantirci una maggiore portabilità del dato. Ci consentirebbe di diventare proprietari dei nostri contatti e dei nostri interessi, e di sottrarre questo controllo ai server di una singola app. Nell’Internet interoperabile gli utenti mantengono il controllo dei propri dati, poiché non li cedono alle singole aziende tecnologiche – le quali perderebbero così buona parte del proprio potere dominante in favore di migliaia di piattaforme più piccole e interoperabili tra loro. Nessuna in grado di “prevalere” sulle altre, né particolarmente interessata a farlo: il nuovo giacimento sarebbe lo stesso per tutti e nessuno potrebbe reclamarne la proprietà.

La piena interoperabilità prevederebbe, poi, una componente antagonistica. È quella che Cory  to «adversarial interoperability»: la possibilità che ogni piattaforma, una volta “aperta”, permetta ad attori esterni non solo di comunicare con essa, ma anche di sviluppare applicazioni, plugin, e strumenti senza il consenso esplicito dei suoi gestori. Una libera infiltrazione da cui i giardini recintati si sono tenuti alla larga e che, secondo Doctorow, potrebbe fornire nuova spinta a un’innovazione tecnologica più equa e distribuita.

Naturalmente, affinché tutto questo raggiunga una massa critica sufficiente, potrebbe volerci molto tempo. Le piattaforme monopolistiche non hanno alcun interesse a rendere completamente interoperabili i propri sistemi, mettendo in crisi il loro business. Mastodon, che pure ha beneficiato dell’esodo da X scatenato dalle nuove policy di Elon Musk, ha appena 10 milioni di utenti registrati e circa 2 milioni di utenti attivi. Per rendere il fediverso “universale” ci vorranno anni, investimenti, e regole nuove. Come quella che l’Europa ha approvato nel novembre 2023, l’Interoperable Europe Act, con cui si punta a rendere disponibili i principali servizi pubblici a tutte le persone nell’UE senza discriminazioni. L’atto garantirà la possibilità di sviluppare servizi digitali interoperabili e riutilizzabili, come software open source, linee guida comuni, framework e strumenti informatici condivisi a livello statale, ma potrebbe diventare una sorta di mappa estendibile anche al settore privato. Nel documento, una frase riassume come poche altre i vantaggi del nuovo modello: «L’obiettivo dell’interoperabilità è raggiungere insieme obiettivi comuni».9

Trasformare gli attuali “giardini” delle piattaforme in “foreste” aperte e comunicanti tra loro, come quelle scoperte da Suzanne Simard, sarebbe un approccio radicalmente diverso rispetto a quello cui siamo stati abituati negli ultimi due decenni. Significherebbe la fine dei walled garden in favore di un ecosistema più libero, e probabilmente più giusto.

© 2024, Garzanti S.r.l., Milano

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Valerio Bassan, credit: Pietro Baroni 2023

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