Editore di nicchia con testi in tiratura limitata stampati su carta di cotone e composizione in monotype, la Henry Beyle pubblica ogni anno venti titoli circa, in particolare di autori del Novecento italiano. Tra esternazioni (“quello dell’editore non è un mestiere per giovani”) e confessioni (“l’autore a cui tengo di più è Sciascia, per ragioni e legami affettivi”), Vincenzo Campo racconta a ilLibraio.it la sua idea di editoria: un palazzo che abita chiamato letteratura, ma di cui non conosce tutte le stanze…

Marie-Henri Beyle era il vero nome di Stendhal. Henry Brulard il nome del suo alter ego letterario, protagonista dell’omonimo romanzo. La casa editrice Henry Beyle, fondata nel 2009 dal bibliofilo siciliano Vincenzo Campo con sede  nel quartiere Bovisa, a Nord di Milano, omaggia Stendhal, ma con quella “y” finale che fa la differenza. Un refuso? No, non può essere, vista l’attenzione maniacale di Campo affinché nei suoi libri non ne compaia mai uno, pena la distruzione della pagina incriminata. Semmai è un divertissement per palati raffinati o semplicemente per amanti dei libri, che non trascurano i dettagli. E così nascono i volumi di questa piccola realtà editoriale, testi brevi, poco noti o caduti nel dimenticatoio, di autori per lo più defunti che hanno fatto grande il Novecento. E li pubblica in tiratura limitata, tra le 365 e le 575 copie numerate, rigorosamente su carta di cotone Zerkall-Bütten, con pagine intonse e che  rimandano dunque alla presenza e all’uso di un  tagliacarte, con la stampa a piombo e caratteri Garamond monotype. Non è un caso che la prima collana abbia preso il nome di Piccola Biblioteca degli oggetti letterari subito seguita dalla Piccola Biblioteca dei luoghi letterari e dai Quaderni di prosa e di invenzione. Volumi in alcuni casi corredati da acqueforti e fotografie originali. I titoli e gli autori parlano da sé: Il libraio inverosimile di Giovanni Papini, Consigli ai bibliofili di Umberto Saba e ancora Vita quotidiana di un uomo di lettere di Hermann Hesse, Metafisica dell’America di Giorgio De Chirico, Che cosa regalare a uno snob di Walter Benjamin, Faust a Bologna di Leo Longanesi. Fino ad arrivare al centesimo volume, uscito a febbraio di quest’anno con le fotografie di Ferdinando Scianna che ritraggono lettori di varie generazioni e latitudini.

Henry Beyle

ilLibraio.it ha incontrato Vincenzo Campo, schivo e poco incline a farsi pubblicità (“il catalogo di un editore parla da sé”) per conoscere la sua idea di editoria e scoprire come avviene la ricerca dei suoi testi.

Ciò che distingue la Henry Beyle come casa editrice non è solo la veste grafica e tipografica, ma l’originalità e varietà dei titoli. Da dove nasce questa esigenza?
“C’è una vasta attività di ricerca: si mira a dar nuova visibilità a  titoli che magari hanno avuto una prima pubblicazione su quotidiani o  riviste,  opere scomparse, non certo per mancanza di valore, di autori del ‘900 italiani e stranieri. Nel nostro caso questa ricerca va condotta su opere brevi per adattarla alla composizione monotype e all’uso di  carte  di particolare pregio. Ovviamente brevità dei testi non significa minor qualità”.

Un editore che guarda più al passato che al futuro…

Nella maggioranza dei casi si tratta di autori che non ci sono più. Lo sguardo della Henry Beyle è rivolto al passato. Si immagini un vecchio palazzo, la cui insegna araldica reca la sola parola letteratura, e le cui stanze, secondo un’immagine cara al principe  Salina, non si conoscono per intero; ci si muove  spinti dalla constatazione che ‘il testo  che in realtà cercavamo è vicino a quello per cui avevamo iniziato la ricerca’, come è stato scritto”.

Qual è dunque la sua idea di editoria?
“Per fare l’editore occorre quella che, prendendo un prestito dal Manzoni, chiamerei ‘l’età sinodale’ delle perpetue. Non è un mestiere per giovani. Credo che soltanto Piero  Gobetti nel Novecento sia riuscito da giovanissimo a farsi editore. Prima di far questo bisogna aver trafficato, aver avuto un rapporto di commercio, di passione e di diatriba con intere biblioteche e con il lavoro di tanti altri. Così si arriva,  per confronto o per furto, a maturare un’idea di editore. I  libri che si pubblicheranno, nella loro successione  saranno la sua unica opera. L’editore, la sua immagine del mondo, è il suo catalogo. Ma anche questo, ahimè, credo sia stato detto”.

E come individua i testi che diventeranno “la sua immagine del mondo”?
“Ci sono almeno due modalità con cui individuo i testi che faranno parte del catalogo della Henry Beyle. In alcuni casi i libri mi vengono incontro, magari aprendo casualmente una rivista. La roba sapeva che doveva andare da Mazzarò perché era ben custodita, scriveva Verga. Potrà sembrare protervia, ma è capitato. In altri casi ho trovato questi scritti vicino a ciò che stavo cercando. Così è avvenuto ad esempio  con il testo di Piero Calamandrei, Il mio primo processo“.

Ci racconta come si è imbattuto in questo testo?
“Era all’interno de Il Ponte. Non avendo più spazio nella mia casa di Milano, avevo inviato alcune annate di quella rivista  in Sicilia. Qualche estate dopo, mentre il pranzo domenicale nella casa dei miei genitori subiva dei rallentamenti ( il pranzo in Sicilia è questione complicata) tornai a visitare  quella che può sembrare una ‘Biblioteca di serie B’, vagavo senza meta al suo interno, così in modo inaspettato scovai  Castrensis jurisdictio obtusior: il titolo latino nascondeva uno dei testi più belli che abbia mai letto. È il primo processo in cui Calamandrei si trova come avvocato di parte: siamo negli anni della prima guerra mondiale. Viene incaricato di difendere dei soldati accusati ingiustamente di diserzione. Almeno uno deve essere, secondo le indicazioni del comando, condannato a morte. Questa scoperta è nata dal caso, sebbene ci siano state delle circostanze particolari che mi hanno consentito di entrare in quel famoso palazzo di cui non conosco tutte le stanze”.

Il libro di Calamandrei appartiene alla Collana Diritti – Società – Frontiere. Per quale motivo tutti i testi di questa collana ospitano in copertina una piastrella?
“Pur nella differenza dei rapporti interpersonali, compresi quelli istituzionali, ci deve essere qualcosa che accomuna. Nei rapporti umani  serve un pavimento, un punto su cui appoggiare i piedi. Occorrono delle piastrelle , che non è detto siano  uguali, anzi in molti casi non lo sono,  ma sono necessarie.  Si deve aver rispetto per quel pavimento che ci consente di entrare in contatto e di dialogare”.

Un’altra collana molto recente sembra strizzare l’occhio a un argomento di grande attrattiva popolare, anche editoriale: la cucina.
“È stata una scommessa. Tutti fanno libri di cucina. Dai vertici dello snobismo, o presunto tale, ai vertici della democrazia. Volevo dare vita ad una collana che fosse diversa e originale rispetto agli altri. Quaderni di cucina ospita Sciascia, Bontempelli, Praz. A settembre uscirà Come si mangia a Milano di Dino Buzzati”.

In perfetto tempismo con Expo.
“In realtà rifuggo queste concomitanze. Questo libro l’ho trovato in una raccolta degli anni ’60 dal titolo Lo Stivale allo spiedo. Nel 1965 Buzzati scrisse questo racconto-conversazione tra persone che svolgono le attività più disparate:  nobili, commercialisti, giornalisti parlano di   come si mangi a Milano. Ne concludono che i ristoranti meneghini, una volta raggiunta una buona nomea, rinuncino poi alla qualità. Di conseguenza Milano va espulsa dalle città in cui si mangia bene”.

Tra gli autori della Henry Beyle figurano artisti ancora in attività come il fotografo Ferdinando Scianna con cui avete realizzato la centesima pubblicazione della casa editrice. Quanta importanza ha avuto la sicilianità come “piastrella” comune del vostro sodalizio professionale?
“Ho conosciuto Scianna grazie ad un amico comune, un editore raffinato venuto a mancare pochi mesi fa, e a cui molto devo, Franco Sciardelli, che aveva l’ufficio vicino a quello di Ferdinando. Quello con Scianna non credo sia stato un semplice rapporto di lavoro. La piacevolezza del conversare con lui, che probabilmente attinge alla comune  sicilianità, ha portato all’idea di questo volume; un modo per festeggiare il centesimo titolo della casa editrice attraverso le sue fotografie e le sue riflessioni e l’abbiamo dedicato ai Lettori da cui prende il nome: è andato esaurito in 50 giorni”.

Anche con Tullio Pericoli in Storie della mia matita avete dato vita ad una pubblicazione unica nel suo genere.
“Quella con Pericoli è stata una sfida tipografica, difficile trovare le tecniche di riproduzione dei disegni. La stessa scelta delle carte da utilizzare è stato un azzardo. L’obiettivo era creare un testo  unico senza molto preoccuparsi  dei risvolti economici, dei costi di produzione. Graficamente  è tra i più belli che abbiamo realizzato”.

A proposito dell’aspetto tipografico, lei ha più volte affermato che il suo scopo è di fare dei libri belli. Il suo legame con la carta, di cotone in particolare, e con la sua grammatura ha un ruolo quasi ancestrale.
“Tonino Guerra sosteneva che bisognasse rivolgersi agli alberi dicendo: ‘Buongiorno, signor albero’. Io la penso allo stesso modo. Per questo la carta di cotone. Eppure la carta di cotone mi ha regalato qualche dispiacere. Quella che utilizziamo infatti è tedesca. In Italia oggi la carta di puro cotone non esiste quasi più, salvo rare eccezioni:  la cartiera Amatruda di Amalfi ne produce una  da 150 grammi di grammatura, poco adatta alla stampa dei nostri testi. Da qui, dall’impossibilità di riprendere carta della nostra tradizione, il dispiacere. Eppure la carta di cotone è incantevole: una  volta ho visto il nostro tipografo, Rodolfo Campi, mentre foglio dopo foglio la inseriva in macchina. Prima aveva i capelli neri e poco dopo era diventato brizzolato: minuscole scaglie di cotone erano finite tra i suoi capelli”.

Come avviene la distribuzione dei vostri libri?
“Quando chiuse la Libreria di Brera, Luca D’Angelo che ottimamente la gestiva si ritrovò a dover far altro, vicino per quanto possibile al mondo dei libri; pensò allora  ad una piccola società  di promozione e distribuzione e creò un marchio che oggi, nella loro totale autonomia, riunisce quattro editori. Affidare la commercializzazione della Henry Beyle a un libraio di formazione è stata una scelta decisamente azzeccata, se posso dirlo”

Quali sono i testi a cui è più affezionato?
“Una delle cose piacevoli di questo mestiere è che le agenzie letterarie e gli eredi degli autori abbiano creduto nei progetti della Henry Beyle e ci abbiano concesso i diritti di pubblicazione. Gli eredi di Arpino, Buzzati, Saba, Soldati, ma limitarsi a questi nomi è fare un esplicito torto agli altri, hanno compiuto gesti di grande generosità. L’autore a cui tengo di più, sebbene sia sgradevole fare una classifica, è Leonardo Sciascia. Ci sono ragioni e legami che, accanto all’indiscusso valore degli autori di cui parliamo, attingono al cuore. E il Gattopardo è tra i miei cinque libri preferiti. Forse tra i primi tre”.

La Sicilia torna di continuo.
“Io sono a Milano dal 1984 eppure la mia inflessione siciliana è ancora chiara. Italo Calvino scriveva che nella vita tutto può cambiare, ma non la lingua che ci ha visto nascere e che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come il mondo più esclusivo”.

Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro della Henry Beyle?
“Io continuerò a frequentare mercatini, scatole polverose, riviste dimenticate. Non so mai cosa troverò. Qualcosa cade sempre sotto i miei occhi e mi viene incontro. Sono ancora molte le stanze di quel famoso palazzo che mi piacerebbe scoprire, semplicemente varcare”.

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