“Credo sia bizzarro per un editore pubblicare libri che stroncano gli autori che pubblica. Non esiste un caso simile nell’intera storia dell’editoria…”. Antonio Franchini ha risposto al critico letterario Matteo Marchesini, protagonista della polemica letteraria del momento, che a sua volta ha chiarito alcuni punti della vicenda – I particolari

Credo sia bizzarro per un editore pubblicare libri che stroncano gli autori che pubblica. Non esiste un caso simile nell’intera storia dell’editoria. I luoghi per un confronto possono essere tanti: i giornali, la rete e i dibattiti. Anche le case editrici, ma non la stessa casa editrice. Mi sembra semplice buon senso”. Parola di Antonio Franchini, uno degli editor italiani più conosciuti, ora nel gruppo Giunti dopo un passato di successi in Mondadori, che risponde così, interpellato da La Stampa, a proposito di una polemica letteraria che in questi giorni vede protagonista la Bompiani (oggi parte del gruppo Giunti); querelle che è partita dopo che, via Facebook, il critico letterario Matteo Marchesini ha annunciato la scelta da parte della casa editrice di non pubblicare una sua raccolta di saggi già messa in calendario.

Il libro Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social sarebbe dovuto uscire ad aprile. Così non sarà. Ha scritto l’autore l’1 febbraio sul social più frequentato: “(…) Mi hanno chiamato dalla casa editrice, e con molto imbarazzo mi hanno detto che è sorto un problema intorno ad alcuni pezzi nei quali critico scrittori legati al gruppo o (‘forse anche’) investiti di ruoli pubblici rilevanti. Antonio Franchini, a cui si deve lo stop, mi ha poi confermato che non intende pubblicare i brani che riguardano i suoi autori: Montesano, Scurati, Moresco ecc. (di Moresco parlo in più punti, e in particolare in ‘Il romanzo pompiere’, un articolo dove lo stronco insieme a Lagioia). Mi è stato quindi posto un aut aut: ‘o togli i pezzi, o Casa di carte non esce’. Io allora ho ripetuto che al di là del modo inqualificabile con cui la Bompiani-Giunti decide di bloccare subito prima dell’uscita un libro già approvato da mesi e da mesi lavorato con i redattori, trovo questa scelta avvilente e un po’ comica (per usare due aggettivi urbani). Avvilente: perché in una cultura abituata a un livello normale di dibattito, nel catalogo di un grande editore i titoli e le idee dovrebbero poter fare tranquillamente a testate. Comica: perché tra l’altro il ‘problema’ coinvolge autori che si presentano come ‘civili’ o che magari hanno scritto ‘Lettere a nessuno’; e anche perché, in un ambiente ormai pochissimo frequentato come quello letterario, il blocco denuncia una situazione parodicamente secentesca. Alla fine ho chiarito che per me la raccolta ha senso solo se resta integra e se resta completo il panorama che descrive: ‘o esce così, o niente’. Quindi, niente…”.

In questi giorni sono tanti coloro che, nel piccolo mondo dell’editoria libraria italiana, hanno commentato la vicenda. Lo stesso Moresco è intervenuto pubblicamente sulla rivista che ha co-fondato, Il Primo Amore. E oggi è tornato a dire la sua, sempre via Facebook, anche Marchesini, in un lungo post in cui chiarisce diversi aspetti, e in cui tra l’altro si legge: “(…) Ho evitato di usare la parola ‘censura’, persino nell’accezione tecnica, appunto per non favorire una ricaduta demagogicamente adolescenziale del dibattito. C’è bisogno di dire che un editore fa quello che vuole? Che uno dei suoi compiti è anzi proprio quello di “censurare”, di scegliere ciò che non va pubblicato?”. E più avanti: “Ci sono piccole case dal progetto ancora definito nei particolari e molto circoscritto; e ci sono grandi contenitori che, polemiche a parte, nel loro corpaccione ospitano oggetti tra loro assai poco conciliabili. In questo regime di eclettismo più o meno fatale, e al netto di tutte le più o meno fatali valutazioni di opportunità, si spera che editori del genere riservino la porzione più ampia possibile ai ben ponderati giudizi di valore. Se nel cerchio di questo possibile non può stare un libro perché critica in maniera argomentata due o tre loro autori, mi sembra che non sia una cosa buona, e che comunque sia una cosa degna di discussione. Sono convinto che se si crede nel valore letterario di quel libro, stamparlo non significhi svalutarne altri, anche perché l’immagine di una grande azienda raccolta sotto le insegne di una o due poetiche mi appare appunto retorica…”. L’intervento si chiude così: “(…) Essere pubblicati non è un diritto, semmai un privilegio. Ciò che posso e voglio difendere, sbagliato o giusto che sia, sono i singoli scritti che pubblico; ciò che voglio e posso fare è continuare a proporli, se li credo non inutili. Sperando che gli editori diventino un po’ più ‘selvaggi’, dato che vogliono selvaggi i lettori. A meno che il termine non abbia per loro un altro significato”.

Difficile che il saggio in questione, già così “discusso” prima dell’uscita, non trovi presto un altro editore.

 

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