Intervista a Mario Biondi autore di Güle Güle. Parti con un sorriso ISBN:8879286366

Tante località, in quattro continenti e 35 anni, da New York a Teheran, ma soprattutto il ponte di Galata, il Corno d’Oro, il Sahara algerino, il bazar di Istanbul, i bagni turchi, i paesaggi lunari dell’Anatolia, il Golfo di Aqaba, l’Egitto e le dolcezze del Nilo, i profumi di Aleppo, i colori di Isfahan: luoghi mitici, archetipici dell’immaginario occidentale, che hanno intrattenuto nei secoli – nei millenni – un fruttuoso rapporto di incontro-scontro con la cultura del Mediterraneo, arricchendola. Questo racconta Mario Biondi in Güle Güle. Parti con un sorriso, suo libro di ricordi di viaggio dopo 12 romanzi, tra cui Gli occhi di una donna, per il quale gli è stato assegnato il Premio Campiello nel 1985. Abbiamo parlato con lui di questa sua nuova impresa.

D. Lei ha viaggiato in terre esotiche con Sandokan e Yanez nei suoi sogni di bambino, ma poi quei sogni li ha realizzati: viaggiare l’ha in qualche modo cambiata?

R. Be’, sono sogni realizzati soltanto in parte. Tra una guerra e l’altra, viaggiare diventa sempre più complicato. Persino la cosiddetta “caduta dei muri”, in realtà è stata il sorgere di una miriade di nuove frontiere, dogane, bolli, balzelli, complicazioni. Il viaggio mi ha cambiato? A chi le poneva la stessa domanda, la straordinaria Freya Stark ha risposto con un tonante “no”. Io poi l’ho personalmente chiesto a una grande viaggiatore come Colin Thubron, e anche lui, dopo averci pensato un po’, ha risposto “no”. Ma loro sono inglesi, mentre probabilmente noi italiani siamo più passionali, più disponibili all’innamoramento. Io penso proprio che viaggiare mi abbia parecchio cambiato, se non altro nell’atteggiamento verso ciò che è “altro” rispetto a noi. Mi ha insegnato il rispetto per le culture diverse dalla nostra.

D. Che cosa significa Güle Güle? Sembra più una filosofia di vita che un semplice augurio.

R. È l’espressione di buon augurio con cui si viene salutati quando si esce da una casa turca, luogo tradizionalmente di grande ospitalità. Significa in sostanza “sorridi sorridi”, e io l’ho liberamente resa con Parti con un sorriso. È effettivamente una filosofia di vita: l’atteggiamento del nomade di fronte al viaggio. Non paura, preoccupazione, ansia, ma “sorriso”, curiosità, aspettativa nei confronti della possibile scoperta. La convinzione che al di là della collina, della curva, della duna c’è quasi sicuramente qualcosa di bello o comunque di nuovo e interessante.

D. Come mai soprattutto l’Est?

R. Una parte dell’Est, ovvero l’Asia Minore e il Vicino e Medio Oriente, con l’appendice del Nord Africa, che essendo musulmano molti assimilano al Medio Oriente. Me lo sono sempre chiesto anch’io, ma senza sapermi veramente rispondere. Io amo raccontare, e grandissime composizioni epico-narrative sono venute da quella direzione: Gilgamesh, Il Libro dei Re, Le Mille e una Notte, Mahabharata e Ramayana… E Omero, lui stesso asiatico o per lo meno anatolico… Ma anche la cultura dei numeri è venuta da quella direzione, e io ho una passione quasi neopitagorica per i numeri. Però forse, più semplicemente, dipende dal fatto che il sole viene da quella direzione e mi fa venire voglia di andargli incontro.

D. Lei ricostruisce con lievità la storia dell’incontro fra civiltà diverse, che a loro modo non muoiono mai. Sembra però di avvertire la nostalgia di un mondo che appare ormai lontano nel tempo, anche se sono passati poco più di vent’anni, un mondo che forse non riusciamo più a vedere.

R. Molti anni fa ho scritto due versi: “Amano invece ancora molto – le rose che hanno colto”. Le persone e le cose che ho amato le amo sempre, e mi piace ricordarle com’erano quando me ne sono innamorato. Non è naturale? Non capita così a tutti? Quindi, siccome mi piace raccontare, preferisco raccontare com’erano in quel momento. Se non vediamo più un certo mondo, è perché non esiste più. Considero una grande fortuna poterlo almeno ricordare e raccontare.

D. Ma oggi vuole ricordare in particolare una di queste persone?

R. Il vescovo Javanis, che un quarto di secolo fa mi ha accolto nel suo monastero giacobita, nell’estremo Sudest della Turchia. È la parte turca di quello che i curdi considerano il loro paese. Singolare gruppo etnico e religioso, quello dei cristiani siriaci giacobiti, monofisiti ostinatamente aggrappati all’eresia di Eutiche. Sono una delle popolazioni più antiche dell’Anatolia ma ormai ridotti a poche migliaia di persone. Javanis non c’è più, ma il suo ricordo per me rappresenta quelle minoranze sempre più minoranze, sempre più perdenti nel gioco dei potenti. Appena a sud del monastero Mar Gabriel c’è la Siria, a poca distanza, a Haran (Carre), è stato annientato dai Parti l’esercito del triumviro Marco Licinio Crasso, da quelle terre è passato anche Marco Antonio, diretto alla rovina militare e personale, lì in mezzo scorre lo stradone che porta in Iraq e Iran. Che scenario meraviglioso e terribile. A quanti tormenti e a quanto dolore dovrà assistere ancora? Potremo continuare a visitarlo liberamente? E per i pochi figli rimasti del popolo di Javanis, espressioni come “libertà” e “democrazia” smetteranno finalmente di essere semplici lemmi di dizionario?

D. Lei ha scritto molto, ma questo è il suo primo libro sul viaggio. Dobbiamo pensare a una sorta di ritorno a casa, di riordino, a un risultato del suo viaggiare?

R. È il mio primo libro esplicitamente di ricordi di viaggio. Ma tante scene di miei romanzi sono ambientate in luoghi lontani che ho visitato: Aleppo, Damasco, persino Parigi o Istanbul (o anche Milano) degli anni Trenta, o New York dell’immediato dopoguerra. Ovviamente questi ultimi sono luoghi che nella realtà ho visto molto più tardi, perché negli anni Trenta non ero nemmeno nato. Ma, avendoli visti, ho potuto poi per così dire rivisitarli con una corsa all’indietro nel tempo attraverso i libri. Per questo in tutto Güle Güle sottolineo l’importanza dei libri come propedeutici o addirittura succedanei dei viaggi: che gioia è stata, nello scrivere quei miei libri, tapparmi in biblioteca con guide di viaggio di quegli anni e inventarmi itinerari nelle città di allora, residenze, alberghi, ristoranti, botteghe, giri in metropolitana, pomeriggi al circo o al cinema.

D. La lettura del suo libro fa sperare che, anche se un giorno tutto sarà un solo grande supermercato da Los Angeles a Bombay, come ha scritto Saul Bellow, ci sarà sempre chi una mattina sentirà l’impulso irresistibile di preparare una valigia e stabilire in quel modo che cosa ci è veramente indispensabile e che cosa possiamo tranquillamente lasciarci dietro partendo.

R. Non riesco nemmeno a pensare che si possa spegnere l’impulso a viaggiare non per sopraffare gli altri e derubarli delle loro risorse naturali ma semplicemente per conoscerli e fare amicizia.

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