Intervista a Jonathan Safran Foer autore di Se niente importa ISBN:9788860881137

“Se niente importa, allora non c’è più nulla da salvare”. Questo insegnamento, che la nonna di Jonathan Safran Foer trasmise al nipotino mentre gli raccontava di quel che dovette fare per scampare alla Shoah, trova una compiuta espressione etica e letteraria in Se niente importa, ultimo libro del giovane autore. Safran Foer ha condotto un’inchiesta che travalica i confini del giornalismo per chiamarci a rispondere della consapevolezza con cui abitiamo il nostro mondo. Leggere Se niente importa significa confrontarsi con una verità scomoda: la nostra libertà di mangiare quel che vogliamo confina con la responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri esseri viventi. “Perché mangiamo gli animali?” non è solo una domanda a proposito del nostro rapporto con l’alimentazione e i suoi riti. È un interrogativo per rispondere al quale non sono ammesse scorciatoie.

D. Se niente importa racconta una storia che riguarda tutti da vicino. Sappiamo che la nascita di suo figlio ha avuto un ruolo importante nella sua decisione di scriverlo.

R. Ho pensato molto a questa cosa sin da quando ero bambino. Credo che molte persone ci pensino, perché mangiare gli animali contrasta con quel che impariamo sugli animali stessi. Sono i protagonisti dei racconti, delle fiabe che ascoltiamo, delle nostre storie… e li mangiamo. Non è che io trovassi la cosa sbagliata… la trovavo semplicemente strana. Poi non ci ho più pensato, fino a quando sono diventato colui che quelle storie – invece che ascoltarle semplicemente – le raccontava. Essere genitore mi ha fatto capire due cose: innanzitutto che devo fare le cose che ritengo giuste per il mio bambino, e poi che devo mantenermi onesto nei suoi confronti, dandogli del cibo per cui sia in grado di dare spiegazioni, senza dover per forza dire mezze verità.

D. Noi siamo fatti di storie. Il nostro rapporto con il cibo è una storia condivisa (tutta l’umanità ne fa parte) ma anche soggettiva. Ho trovato Se niente importa molto efficace nel presentare i fatti senza forzare la mano.

R. Non ho scritto questo libro perché volessi cambiare l’opinione della gente. L’ho scritto perché mi sono reso conto che se altre persone avessero visto quel che ho visto io, sicuramente avrebbero sentito qualcosa cambiare dentro di sé. Non necessariamente sarebbero cambiati tutti nella stessa direzione, diventando vegetariani… quel che volevo davvero era smuovere qualcosa nelle coscienze. Volevo che i miei lettori mi fossero grati per aver mostrato loro qualcosa che altrimenti non avrebbero conosciuto. C’è una sola verità sull’allevamento intensivo di carne, anche se persone diverse potranno giungere a conclusioni diverse. Che si viva in campagna o in città, che si abbiano alcune opinioni piuttosto che altre… chiunque si interessi di storie e abbia un po’ di raziocinio converrà che deve esistere un modo migliore di alimentarsi.

D. Lei, dopo essere entrato una notte, di nascosto, in un allevamento intensivo di tacchini e averlo raccontato, cita le parole di un allevatore: “siamo sei miliardi su questo pianeta. Come facciamo a sfamare tutti?”. La si accusa, insomma, di parlare a nome di un’élite che può permettersi il privilegio di scegliere cosa mangiare. Come risponde?

R. Sicuramente non riusciremo a dar da mangiare a tutti, se vogliamo dare a tutti la stessa quantità di carne che mangiamo noi americani e occidentali. Se tutti mangiamo carne tre volte al giorno, non si può in nessun modo fare a meno dell’allevamento intensivo. Ma chiunque abbia un’opinione seria a proposito dell’ambiente, della fame nel mondo, della povertà e degli animali, risponde che la soluzione è mangiare meno carne. L’allevamento intensivo è l’effetto e la conseguenza inevitabile della nostra bramosia di carne. Negli Stati Uniti oggi si consuma centocinquanta volte più pollo di quanto ne venisse consumato ottant’anni fa. Capita di sentire qualche folle, reazionario personaggio televisivo dire “… dovrete strapparmi la carne dalle mani per impedirmi di mangiarla”. Ma la mia domanda è: “… chi ti ha messo quella carne fra le mani?”. Oggi mangiamo molta più carne di ieri perché la carne ha un prezzo molto più basso e perché non abbiamo facile accesso a un altro tipo di alimentazione. Ma mangiamo molta più carne anche perché questa abitudine ci è stata imposta da McDonald’s, non dalla nostra famiglia.

D. Abbiamo un accesso molto comodo e molto economico alla carne ogni volta che andiamo a fare la spesa. Chiunque decida di adottare un’alimentazione più consapevole deve in qualche modo “compiere un salto”. Pensa che la nostra pigrizia incida molto su questo stato di cose?

R. A me ci sono voluti venticinque anni per diventare vegetariano… .e io ho sempre pensato molto a questo argomento! Quindi non mi aspetto che nessuno diventi vegetariano dall’oggi al domani. Semplicemente, dobbiamo smetterla di pensare a questi temi usando categorie come “vegetariano” e “non vegetariano”. Cominciamo a pensare al cibo che mangiamo come ad una scelta da fare giorno dopo giorno! Tendiamo a pensare in bianco e nero, ne facciamo una questione di identità, ci scusiamo dicendo che non possiamo essere perfetti. Ma pensiamo un attimo alla questione dell’ambientalismo: non ha senso definire una persona come “ambientalista” o “non ambientalista” tout court… perché noi facciamo delle cose buone per l’ambiente, e contemporaneamente ne facciamo altre meno buone. Sono venuto con l’aereo, da New York… e questa è forse una delle scelte peggiori che si possano fare per l’ambiente. Ma di sicuro non mi riterrò “antiambientalista” per questo. Ecco: penso che dovremmo adottare lo stesso criterio per il cibo. Il fatto che non riusciamo ad essere perfettamente vegetariani non ci deve impedire di tentare.

D. Lei riflette su questo tema da venticinque anni. Forse tutto ha avuto inizio con le parole di sua nonna, che oggi danno il titolo al suo libro. È riuscito a parlare con lei delle cose di cui racconta nel libro?

R. C’è un aspetto di grande singolarità nel rapporto tra mia nonna e i miei libri. In tutti e tre, in un certo senso, lei funge da musa. Però, anche se essi sono stati tradotti in trentasei lingue, tra di esse non figura lo yiddish… che è l’unica lingua in cui mia nonna legge, parla e sogna! Ma io credo che lei capisca la mia posizione, i miei sentimenti nei confronti del cibo… anzi: prima di partire ho avuto con lei una conversazione sorprendente. Le ho chiesto: “Nonna, secondo te gli animali provano dolore?”, e lei mi ha guardato come se le avessi fatto una domanda assurda. “Certo”, mi ha risposto, “a volte facciamo cose terribili, agli animali”. Mia nonna ha novant’anni, e si è sempre nutrita con lo stesso cibo. Per lei il cibo rappresenta l’ultimo legame con la sua famiglia e col suo luogo d’origine. Non cambierà il suo modo di mangiare – sarebbe ingiusto pretenderlo – però penso che sia orgogliosa del modo in cui io sono cambiato perché sa di aver qualcosa a che fare con questo cambiamento. Sa che è basato su valori che lei stessa mi ha instillato quand’ero piccolo.

Intervista a cura di Matteo Baldi

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