Se ci sono casi in cui una parola ha mantenuto la stessa pronuncia nel passare dal greco al latino (come accade con “Afrodìte” o con “Agamènnone”), si verificano anche circostanze meno fortunate, in cui l’accento si è spostato nel corso dei secoli (per esempio in “ossìmoro” e “ossimòro”, o in “nècrosi” e “necròsi”). Ecco quindi come capire quando (e se) è più corretto rifarsi all’etimologia greca o alla vicinanza dell’italiano alla lingua latina…

Tra le tante insidie che nasconde la lingua italiana, perfino per i più esperti nell’applicare le sue regole, rimane ancora oggi quella legata all’accento tonico delle parole che derivano dal greco e dal latino.

Se, infatti, ci sono casi in cui un termine ha mantenuto la stessa pronuncia nel passare dall’uno all’altro idioma (come accade con Afrodìte o con Agamènnone), si verificano anche circostanze “meno fortunate” in cui l’accento si è spostato nel corso dei secoli, adattandosi alla consuetudine di una diversa comunità di parlanti.

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Pensiamo, per esempio, al sostantivo metonimia, che se consideriamo il modo in cui è stato trasmesso fino a noi attraverso il latino si dovrebbe leggere metonìmia, mentre alla greca sarebbe metonimìa.

Un discorso analogo vale per Tesèo e Tèseo, come pure per lemmi come mìmesi e mimèsi, zàffiro e zaffìro, Edìpo ed Èdipo: la prima variante è quella più corretta e più antica dal punto di vista etimologico, derivando direttamente dal greco, mentre la seconda è quella più vicina a noi dal punto di vista temporale, e che in genere si consiglia di usare tenendo conto del fatto che la nostra è una lingua neolatina, i cui vocaboli sono spesso arrivati fino a noi proprio attraverso il sistema linguistico dei Romani.

Eppure, certe parole italiane di origine grecolatina si pronunciano di solito alla greca se si tratta di nomi astratti in –ìa (parodìa, filosofìa, abbazìa, liturgìa) o di nomi propri in –èo (Timèo, Morfèo, Odissèo), nonostante alcune eccezioni come commèdia e tragèdia, o ancora Epimetèo e Promèteo.

D’altra parte, resta vero che si leggono generalmente alla latina, invece, le parole necròsi (e non nècrosi) e ossìmoro (e non ossimòro), anche se specularmente è più consolidato l’uso alla greca di prògnosi (e non prognòsi) e litote (e non lìtote), il che porta a svariate oscillazioni tanto in ambito medico quanto in un contesto letterario.

Gli stessi linguisti, nel corso degli anni, hanno aderito a posizioni differenti tra loro – basti pensare a Giovanni Nencioni (1911-2008), ai tempi presidente onorario dell’Accademia della Crusca, come si legge nell’archivio del Il Corriere della Sera avrebbe consigliato, in un suo intervento del 1995 intitolato La Crusca per voi (n. 11, p. 14), di affidarsi esclusivamente alla frequenza d’uso nella vita di ogni giorno, mentre il linguistica Giorgio De Rienzo è dell’opinione che sia più indicato accentare sempre alla greca.

Opposto il suggerimento dell’autorevole linguista e filologo Luca Serianni, che nella sua Grammatica (I.183-184) specifica: “In linea di massima, è preferibile seguire l’accentazione latina, proprio per riconoscere la parte che spetta a questa lingua nella formazione del lessico intellettuale e scientifico e nella trasmissione del patrimonio onomastico dell’antichità”.

Tuttavia, sottolinea lo stesso Serianni poco dopo, “esistono usi consolidati che sarebbe assurdo pretendere di modificare. Come nessuno parlerebbe di ‘complesso di Èdipo’, alla latina, così appare senza concorrenti la pronuncia alla greca di ‘accadèmia’ (contro il latino ‘accademìa’)”, come già osservavamo.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, quello che emerge è che quando un termine si presta a una doppia accentazione per motivi etimologici non c’è mai un’opzione più giusta di un’altra, o per lo meno non di default. Sulla carta non sbaglia chi dice Eraclìto alla latina al posto di Eràclito alla greca, né chi preferisce pronunciare alopecìa alla greca anziché alopècia alla latina.

Ciò che conta, in linea di massima, è riconoscere la correttezza di entrambe le varianti e stabilire in modo coerente a quale scuola di pensiero rifarsi, assecondando eventualmente la consuetudine più diffusa ed evitando comunque l’unico vero “errore” possibile, se così vogliamo chiamarlo: quello di oscillare senza motivo fra il greco e il latino tra una frase e l’altra, senza riuscire a riconoscerne fino in fondo la ragione.