Meglio dire “leggiadro” o “leggero”, “reticente” o “renitente”? E in che occasioni si usano “venale” e “veniale”? Una guida sintetica per capire le differenze fra queste e altre coppie di parole italiane che si somigliano tra loro, e per usarle sempre nel contesto giusto

Anche a voi capita di fissare una parola e chiedervi se sia proprio la più adeguata al contesto in cui si trova, salvo poi rendervi conto che sembra stare al posto giusto, anche se in realtà esprime un concetto di altro tipo?

Allora saprete già di cosa stiamo parlando: “falsi amici” della lingua italiana o, per la precisione, termini che si assomigliano fra loro per lettere o suoni da cui sono composti, ma che a livello di significato non sono affatto sinonimi.

Esempi in proposito ne vengono citati da tempo immemore – anzi no, cogliamo l’occasione per ricordare che la parola giusta è immemorabile, perché il tempo non ha memoria di sé stesso, ma è impossibile da quantificare nel ricordo di noi esseri umani.

In questa guida sintetica, esaminiamo cinque casi molto diffusi in merito, riguardanti delle coppie di parole che vengono spesso scambiate nell’uso comune, così da capire una volta per tutte come usarle in modo corretto.

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Leggiadro o leggero?

Partiamo da una coppia di aggettivi, leggiadro e leggero, che sembrano avere a che fare entrambi con una certa levità, con l’opposto cioè della pesantezza. In realtà, non tutti sanno che definire una persona leggiadra equivale a dire elegante nei gesti, delicata nelle maniere, aggraziata nel portamento.

Diversamente da leggero, quindi, che invece vuol dire appunto moderato, debole, di poca forza o di poca intensità. Ne consegue che gli individui leggiadri hanno un aspetto amabile, ma non per forza saranno di corporatura sottile, mentre la gente leggera potrà forse pesare poco, anche se non necessariamente avrà un’aria signorile.

Frustrare o frustare?

Proseguiamo poi con due verbi responsabili di molti scivoloni, spesso compiuti anche solo per distrazione o, tanto per cambiare, per via della loro ingannevole affinità. Se scoraggiamo una persona con parole e azioni, rendendo inutili le sue fatiche, ebbene: la stiamo frustrando (dal latino frustra, cioè invano), o in altre parole mortificando.

Differente è una circostanza durante la quale critichiamo qualcuno, rendendolo quindi oggetto del nostro disappunto, al pari di quanto facevano in modo sfortunatamente più letterale i padroni degli schiavi con questi ultimi: li frustavano, li flagellavano, con una pratica caduta oggi in disuso e che resta viva solo come metafora.

Reticente o renitente?

Chi un tempo si opponeva alla leva obbligatoria era… contrario, sì, e di conseguenza reitcente o renitente? Qualcuno userebbe i due attributi in modo intercambiabile, eppure nel contesto in questione l’unica risposta corretta è renitente, che significa pronto a opporre resistenza.

Certo, anche chi dimostra una qualche reticenza si sta opponendo a qualcosa, anche se stavolta si tratta dell’attitudine di chi non vuole esprimersi, preferisce mantenere il riserbo, non rivela fino in fondo ciò di cui è al corrente su un dato argomento. Ecco perché si può essere reticenti a parlare senza essere renitenti nei confronti di chi sta parlando con noi, o al contrario opporre resistenza ma proferendo eccome parola.

Veniale o venale?

Veniamo ora a una coppia di falsi amici fra i più comuni da confondere in italiano, dal momento che basta una “i” in più o in meno per stravolgere il senso dei due termini: da una parte abbiamo veniale, che deriva dal lemma venia, cioè perdono; dall’altra parte abbiamo invece venale, la cui origine è venum, ovvero vendita.

Ecco spiegato il motivo per cui si parla di “peccati veniali” per riferirsi a una violazione morale o religiosa che può essere però giustificata, scusata, mentre nel caso del “valore venale” di un oggetto l’allusione è alla valutazione che se ne dà riferendosi meramente al suo prezzo di mercato, senza considerare altri aspetti oltre a quello economico.

Innestare o innescare?

Chiudiamo infine con due verbi, innestare e innescare, la cui idea comune è apparentemene quella del principio, di qualcosa a cui si dà il via di propria volontà. In effetti è così per innescare, che da vocabolario designa l’atto di “provocare o mettere in moto una serie di fenomeni o di eventi”, cioè di mettere un’esca.

Un po’ differente, però, è il caso di innestare, il cui uso è registrato soprattutto nell’ambito agrario e che è il termine con cui si indica l’innesto (cioè l’inserimento, l’inoculazione) di una parte di organismo vivente all’interno di un altro. Trapiantare un corpo in un altro è dunque un altro modo di dire innestare, mentre innescare può essere sostituito da parole come iniziare o cominciare.