Usata in contesti colloquiali e letterari, la locuzione avverbiale “a bizzeffe” deriverebbe da un lemma arabo, anche se anticamente era stata ipotizzata una sua curiosa etimologia latina, legata al mondo dei magistrati…

Immaginate di trovarvi in libreria: adocchiate due o tre testi di cui andavate alla ricerca da un po’. Poi un altro vi colpisce per la copertina, un quarto per la trama, e un quinto ha un titolo che promette a dir poco benissimo. Così, alla fine, passate dalla cassa e tornate a casa con libri a bizzeffe.

Probabilmente avrete familiarità con la situazione appena descritta e, come in molte altre circostanze, vi sarà capitato di usare la locuzione avverbiale “a bizzeffe” per descrivere una grande quantità di elementi uguali tra di loro. Ma sapete anche da dove deriva il modo di dire?

Ebbene, stando a quanto affermano oggi i linguisti, le sue origini sarebbero da fare risalire alla parola arababizzāf”, che guarda caso significa “molto” e che sarebbe arrivata in Italia attraverso l’Algeria (nella cui area la pronuncia è proprio “bizzēf”).

Una volta raggiunto il nostro Paese, l’espressione venne usata per secoli in contesti non solo colloquiali, ma anche letterari – tant’è che Alessandro Manzoni, nel terzo capitolo de I promessi sposi, scrisse: “Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. Infatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe“.

C’è da dire, però, che non sempre la sua storia etimologica è stata così chiara e condivisa: basti pensare che, nel XVII secolo, il poeta e letterato Paolo Minucci inserì fra le sue Note al Malmantile riacquistato dello scrittore e pittore Lorenzo Lippi la sua opinione al riguardo, ipotizzando un’interessante derivazione latina.

“Quando il sommo magistrato romano”, osservava infatti, “intendeva concedere a un supplicante la grazia senza limitazioni, faceva il rescritto sotto al memoriale, che diceva fiat, fiat (sia, sia) anziché semplicemente fiat, che scrivevasi quando la grazia era meno piena, dipoi per brevità costumarono di dimostrare questa pienezza di grazia con due sole “ff“, onde quello che conseguiva tal grazia diceva: ‘Ho avuto la grazia a bis effe‘”.

Questa possibilità, nel tempo, è stata considerata meno plausibile, anche se a suo sostegno esisteva già allora la variante “a biseffe” con una “s” anziché due “z” (attestata per esempio in Cesare Beccaria, che una volta disse: “Io ne ho di questo mio argomento gli esempi a biseffe“, come riporta Treccani).

Quale che sia la verità, il termine “bizzeffe” rimane curioso anche solo per il fatto che costituisce un hapax della nostra lingua, cioè una voce del dizionario che è presente soltanto come parte della locuzione in questione, senza altri riferimenti d’uso. E oltre a ciò, come appunto dicevamo all’inizio, rimane un’espressione usata… in gran quantità!

Fotografia header: GettyEditorial 01-06-2021

Abbiamo parlato di...