Avreste mai detto che “stiamo freschi” fosse un’espressione di derivazione dantesca? E che dire di “rompere il ghiaccio”, “avere grilli per la testa” e “compagnia bella”? Andiamo alla scoperta di queste e altre frasi idiomatiche, usate ancora oggi nella lingua italiana, che sono arrivate fino a noi grazie alla grande letteratura

Se c’è una cosa difficile da spiegare a chi non è di madrelingua italiana sono le espressioni idiomatiche che la caratterizzano, ovvero i modi di dire del nostro sistema linguistico e culturale che hanno un significato metaforico o traslato, e che tradotti in modo letterale non risultano subito chiari.

La questione si fa ancora più complessa, e quindi più interessante, quando le locuzioni in questione affondano le loro origini nella grande letteratura, e si configurano quindi come vere e proprie citazioni d’autore, che con il passare del tempo sono poi entrate nella parlata quotidiana.

Certamente vi saranno già venuti in mente decine di esempi, fra cui “tutto è bene quel che finisce bene” (che deriva da un’omonima opera di Shakespeare) o “fatti non foste a viver come bruti” e “lasciate ogne speranza, voi ch’intrate“, entrambe frasi provenienti dalla Divina Commedia.

Avreste mai detto, però, che anche sintagmi apparentemente moderni o lontani dal mondo della cultura, come per esempio “stiamo freschi“, potrebbero affondare le loro radici tra le pagine di un libro? Ecco di seguito alcuni tra i più curiosi di questi casi…

“Stiamo freschi”

Forse non ci crederete, eppure questo modo di dire risale a una delle opere più celebri della letteratura italiana, ovvero la Commedia dantesca. Al verso 117 del canto XXXII dell’Inferno, infatti, vengono descritti i dannati che si trovano presso il lago di Cocito (“un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante”), e che stanno tanto più immersi nell’acqua fredda quanto più gravi sono stati i loro peccati in vita. Questo è il motivo per cui Dante Alighieri (1265-1321) descrive il luogo come quello in cui “i peccatori stanno freschi“.

“Altro che storie”

Restiamo sempre in Italia, ma ci spostiamo nel XX secolo. Tra il 1958 e il 1959, infatti, lo scrittore, saggista e partigiano Carlo Cassola (1917-1987) scrisse il romanzo La ragazza di Bube, che tra le sue tante mirabili pagine conteneva anche la battuta di un dialogo piuttosto colorito, nel quale si rimarcava la verità di un fatto contestato attraverso questa locuzione: “Ma che c’entrava esser poveri? È che erano sudici, altro che storie!“. Fu così che l’espressione, comunque già esistente, diventò sempre più di uso comune.

“Come volevasi dimostrare”

Per risalire alle origini di questo modo di dire dobbiamo stavolta spostarci addirittura nell’antica Grecia, patria di grandi artisti, filosofi, medici, poeti e… matematici. Uno dei più conosciuti ancora oggi era Euclide (IV-III sec. a.C.), autore fra le altre opere degli Elementi, in cui sono raccolte le sue più importanti formulazioni di geometria. E fu proprio questo trattato che il grande pensatore concluse coniando la frase “Come volevasi dimostrare“, per evidenziare la “quadratura del cerchio” (per così dire) di quanto aveva ipotizzato ed esaminato fino ad allora.

“Un altro paio di maniche”

A scriverlo per la prima volta fu Alessandro Manzoni (1785-1873) ne I promessi sposi, per descrivere nel XXVII capitolo il livello di alfabetizzazione del giovane Renzo. Il personaggio, infatti, dopo i tumulti milanesi cominciò a scrivere delle lettere a Lucia e a sua madre Agnese, motivo per cui l’autore ci tiene a spiegare che, nonostante le sue origini, il protagonista riusciva a leggere e a scrivere discretamente. Anzi, precisa poi: “Lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo; lo scritto è un altro par di maniche”.

“Rompere il ghiaccio”

Nel caso di questo fraseologismo ci tocca guardare invece a William Shakespeare (1564-1616), apprezzato in tutto il mondo non solo per le sue tragedie, ma anche per le sue commedie. Fra queste, una delle prime a venire redatta fu La Bisbetica domata (1594), nella quale il personaggio di Petruccio veniva persuaso con le seguenti parole a sposare la bisbetica Caterina per far sì che anche sua sorella minore potesse unirsi in matrimonio: “Che se voi rompete il ghiaccio, e compite questa impresa di prendervi la maggiore, e lasciar così libera per noi la seconda…”.

“Uno scheletro nell’armadio”

Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una locuzione popolare e di lontana origine, che doveva essere conosciuta in più parti d’Europa già diversi secoli fa, come per esempio in Francia e in Inghilterra. Proprio qui, poi, secondo i dizionari è stata attestata specialmente nella letteratura del XIX secolo, nella variante “a skeleton in the cupboard“, che poi nella nostra lingua ha modificato la credenza in un armadio. E avreste mai detto che a servirsene, tra le firme più autorevoli, fosse stato il grande romanziere Charles Dickens (1812-1870)?

“E compagnia bella”

La storia di questa espressione è singolare e diversa dalle altre. Si deve, infatti, alla storica traduzione di Adriana Motti del romanzo Il giovane Holden di J.D. Salinger (1919-2010), che con “e compagnia bella” rese una delle numerose occorrenze dell’inglese “…and all“. Ispirandosi ai suoi nipoti, la giornalista e traduttrice cercò di evitare le ripetizioni presenti nell’originale ricorrendo a dei modi coloriti di esprimere lo stesso concetto, e la perifrasi in questione divenne così fortunata da diffondersi dal secondo dopoguerra in poi anche nel parlato.

“Grilli per la testa”

Concludiamo con un altro sintagma firmato nientemeno che da Alessandro Manzoni, che nel secondo capitolo de I promessi sposi racconta di una concitata conversazione tra don Abbondio e Renzo. Così, quando il giovane gli chiede come abbia fatto don Rodrigo a intralciare le nozze con Lucia, il curato esclama: “Come, eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo“, espressione qui usata con amara ironia e rimasta fino a oggi proverbiale.

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